25 Maggio 2015

Esportazioni di beni previa lavorazione con clausola “FCA”

di Marco Peirolo
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Con la clausola FCA (Free carrier o Franco vettore), il venditore adempie all’obbligo di consegna rimettendo la merce, sdoganata all’esportazione, al vettore designato dal compratore nel luogo convenuto.

Nella prassi operativa, questo termine di resa viene utilizzato in sostituzione della clausola EXW (Ex works o Franco fabbrica), al fine di evitare il rischio che il cessionario non residente, una volta entrato in possesso della merce nel luogo concordato, non restituisca la copia della fattura vidimata dall’Ufficio doganale, che rappresenta tuttora – cioè anche a seguito dell’introduzione del sistema informatico di controllo delle esportazioni ECS (Export Control System) – la prova dell’avvenuta esportazione, indispensabile per giustificare il regime di non imponibilità IVA applicato dal cedente nazionale.

Al pari della clausola EXW, anche la clausola FCA consente, infatti, all’operatore italiano di emettere la fattura di vendita con la dicitura “operazione non imponibile” e con l’eventuale indicazione della norma di riferimento, comunitaria o nazionale. Si tratta, in quest’ultimo caso, dell’art. 8, comma 1, lett. b), del D.P.R. n. 633/1972, riferito alle “cessioni con trasporto o spedizione fuori del territorio della Comunità economica europea entro novanta giorni dalla consegna, a cura del cessionario non residente o per suo conto (…)”.

È noto che, a seguito della sentenza BDV Hungary Trading (causa C-563/12 del 19 dicembre 2013), la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 98 del 10 novembre 2014 ha escluso che la cessione diventi imponibile, in via definitiva, in conseguenza del mero superamento del termine di 90 giorni, ossia anche quando l’operatore nazionale sia in grado di dimostrare il materiale trasferimento dei beni in territorio extracomunitario. Secondo l’Agenzia, “preso atto dell’indirizzo della Corte europea, si ritiene che il regime di non imponibilità, proprio delle esportazioni, si applichi sia quando il bene sia stato esportato entro i 90 giorni, ma il cedente ne acquisisca la prova oltre il termine dei 30 giorni previsto per eseguire la regolarizzazione, sia quando il bene esca dal territorio comunitario dopo il decorso del termine di 90 giorni previsto dal citato articolo 8, primo comma, lettera b), del DPR n. 633 del 1972, purché, ovviamente, sia acquisita la prova dell’avvenuta esportazione. Si ritiene, altresì, possibile recuperare l’IVA nel frattempo versata ai sensi dell’articolo 7, comma 1, del citato decreto n. 471 del 1997”.

Analogamente alla clausola EXW, anche con la clausola FCA, se il cliente è stabilito al di fuori dell’Unione europea, è previsto che nella bolletta doganale di esportazione figuri il cedente italiano come esportatore (art. 788, par. 2, del Reg. CEE n. 2454/1993).

Ipotizzando che i beni, prima dell’esportazione, siano oggetto di lavorazione da parte di un terzista, occorre verificare se sia possibile considerare l’operazione come una cessione all’esportazione di cui all’art. 8, comma 1, lett. b), del D.P.R. n. 633/1972.

La soluzione negativa si desume dalle indicazioni fornite dall’Amministrazione finanziaria, essendo stato precisato che la previsione di non imponibilità “riguarda l’ipotesi in cui l’acquirente estero provvede a ritirare, direttamente o tramite terzi, i beni presso il cedente, curando la successiva esportazione degli stessi, allo stato originario, entro novanta giorni dalla data di consegna” (C.M. 13 febbraio 1997, n. 35/E, § 4).

Resta, a questo punto, da stabilire se – in caso di lavorazione – la cessione possa beneficiare del trattamento agevolato previsto, per le esportazioni dirette, dalla lett. a) dello stesso art. 8 del D.P.R. n. 633/1972.

La norma stabilisce espressamente che “(i) beni possono essere sottoposti per conto del cessionario, ad opera del cedente stesso o di terzi, a lavorazione, trasformazione, montaggio, assiemaggio o adattamento ad altri beni”. A differenza, però, della non imponibilità di cui alla lett. b), le operazioni contemplate dalla lett. a) si riferiscono alle “cessioni, anche tramite commissionari, eseguite mediante trasporto o spedizione di beni fuori del territorio della Comunità economica europea, a cura o a nome dei cedenti o dei commissionari, anche per incarico dei propri cessionari o commissionari di questi”.

In pratica, quest’ultima previsione di non imponibilità presuppone che il trasporto/spedizione dei beni all’estero avvenga a cura o a nome del cedente, anche per incarico del cessionario nell’ipotesi dell’esportazione diretta in triangolazione.

Per beneficiare dell’agevolazione è, quindi, necessario che l’invio dei beni lavorati al di fuori dell’Unione sia organizzato dal fornitore italiano.

Si rammenta che l’Amministrazione finanziaria, in merito alla locuzione “a cura del cessionario non residente o per suo conto”, prevista dalla lett. b) dell’art. 8 del D.P.R. n. 633/1972, ha precisato che al trasferimento dei beni in territorio extracomunitario deve provvedere direttamente il cliente non residente, ovvero un terzo (es. vettore o spedizioniere), purché per conto del cliente stesso. In quest’ultima ipotesi, il soggetto “terzo”, incaricato del trasporto/spedizione, non può coincidere con l’operatore nazionale; diversamente, si realizzerebbe un’esportazione diretta, non imponibile ai sensi della lett. a) dello stesso art. 8 (R.M. 28 luglio 1979, n. 411174).

Nello stesso senso si è espressa anche la giurisprudenza, la quale – dopo avere escluso il beneficio della non imponibilità di cui alla lett. b) se i beni oggetto di esportazione sono stati sottoposti, per conto del cessionario non residente, ad una lavorazione in territorio italiano – ha stabilito che la cessione resta comunque detassata, seppure ai sensi della lett. a), anche se il trasporto è avvenuto con clausola EXW a cura del cedente per conto del cessionario (C.T. Reg. di Milano, 7 giugno 2005, n. 98).