Il transfer pricing “domestico” e l’abuso del diritto
di Fabio Pauselli
Come note, con il termine transfer pricing “domestico” si è soliti intendere quelle (presunte) problematiche fiscali legate ai processi valutativi dei prezzi di trasferimento di tutti quei componenti attivi e passivi di reddito che interessano i rapporti commerciali intercompany delle società residenti nel territorio nazionale.
In questo contesto la Corte di Cassazione, con la sentenza n.17955 del 24 luglio 2013, ha enunciato un principio molto importante in termini di abuso del diritto e di riserva di legge, accogliendo il ricorso dell’Agenzia delle Entrate oppostasi alla decisione della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia di annullare un accertamento di maggiori imposte a carico di una Società milanese. Quest’ultima, nello specifico, aveva ceduto beni alla controllata meridionale fruitrice di agevolazioni fiscali, con un ricarico di circa il 4% invece di quello mediamente applicato del 10%. L’Amministrazione finanziaria sosteneva che ogniqualvolta con la fissazione di un prezzo fuori mercato si mira a far emergere utili presso società del gruppo che scontano, anche per agevolazioni territoriali, la più bassa tassazione, il criterio legale del valore normale delle operazioni infragruppo rileva a prescindere dal territorio; pertanto, non solo nei rapporti internazionali di controllo ma anche in analoghi rapporti di diritto interno.
La Suprema Corte ha osservato che, nonostante l’art. 110 del T.U.I.R. non possa trovare diretta applicazione per il transfer pricing domestico, per la valutazione a fini fiscali delle manovre sui prezzi di trasferimento interni deve comunque essere applicato il principio, avente valore generale, stabilito dall’art. 9 del T.U.I.R. che impone, quale criterio valutativo, il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi presi in considerazione dal contribuente. Ciò in applicazione del divieto di abuso del diritto, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, seppur non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere agevolazioni o risparmi d’imposta e in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici.
Questo principio se da un lato trova fondamento quale clausola antielusiva in radici comunitarie a salvaguardia delle risorse proprie dell’Unione europea, è ben radicato anche nei principi costituzionali di capacità contributiva e imposizione progressiva tipici del nostro diritto tributario. Inoltre un tale assunto non contrasta con il principio della riserva di legge, traducendosi, di fatto, nel disconoscimento di effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Tra tali operazioni, quindi, rientrano anche quelle manovre sui prezzi di trasferimento in ambito nazionale motivate dalla convenienza di trasferire materia imponibile, agendo sui prezzi negoziati per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi intercompany. In particolare, il fenomeno del cd. “transfer pricing domestico” oggetto della suddetta sentenza ha consentito all’impresa settentrionale di realizzare una contrazione del proprio reddito imponibile assoggettato alle aliquote ordinarie e di “gonfiare” l’utile dell’impresa meridionale, la quale godeva delle agevolazioni fiscali per il Mezzogiorno.