19 Febbraio 2015

Personale all’estero: qual è la soluzione migliore?

di Nicola Fasano
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Le aziende che hanno necessità di inviare personale all’estero, si trovano spesso di fronte all’amletico dubbio su quale sia la formula migliore che riesca a contemperare le diverse esigenze contrattuali, fiscali e previdenziali.

Purtroppo, come sempre, non c’è una risposta univoca e dipende dai casi. Le soluzioni più utilizzate, in linea di principio, sono quelle della trasferta, del distacco o della c.d. “localizzazione” (ossia assunzione direttamente presso la consociata estera).

La trasferta è un istituto utilizzato soprattutto per esigenze contingenti nel senso che dovrebbe presupporre l’esigenza del datore di lavoro di inviare personale all’estero per brevi periodi: tipico caso potrebbe essere quello dei manutentori. Il rapporto di lavoro resta fra due soggetti (azienda e dipendente) e la durata non dovrebbe essere molto prolungata, fermo restando che, in verità, non esiste alcuna norma che preveda un termine massimo della durata della trasferta. Tuttavia si è soliti fare riferimento alla soglia dei sei mesi, perché superato tale orizzonte temporale, potrebbe essere più conveniente implementare un distacco “guadagnando” così l’applicazione delle retribuzioni convenzionali di cui all’articolo 51, co. 8-bis, Tuir (generalmente più favorevoli rispetto alla tassazione analitica regolata dai precedenti commi del medesimo articolo 51, Tuir) che richiedono, fra l’altro, il soggiorno all’estero per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco di dodici mesi. In caso di trasferta, in particolare, trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 51, comma 5, Tuir. La trasferta, inoltre, in linea di principio, non dovrebbe comportare alcun riaddebito intercompany, posto che beneficia della prestazione lavorativa lo stesso datore di lavoro che procede all’invio.

Completamente differente è invece l’ottica del distacco internazionale, istituto molto utilizzato nella prassi delle aziende che operano in ambito internazionale, ma che non è disciplinato compiutamente da alcuna disposizione specifica. Il distacco, a cui si ricorre per esigenze meno estemporanee rispetto alla trasferta, comporta “l’allargamento” del rapporto di lavoro a un terzo soggetto, la società distaccattaria presso cui il dipendente distaccato, per un predeterminato periodo di tempo, presta la propria attività lavorativa in quanto inviato dall’originario datore di lavoro (distaccante). In questo caso è opportuno fare molta attenzione all’aspetto contrattuale in quanto si deve redigere:

  • un accordo fra le società interessate in cui vengono regolati anche eventuali (e molto comuni) processi di riaddebito dei costi, soprattutto quando il distaccante continua a retribuire in tutto o in parte il dipendente, che presta tuttavia la propria attività presso la distaccataria, solitamente vera beneficiaria della prestazione lavorativa;
  • un contratto di distacco fra l’originario datore di lavoro e il dipendente in cui quest’ultimo presta il consenso all’invio all’estero e vengono definite tutte le questioni attinenti il rapporto di lavoro (aspetti economici, temporali ecc.)

Dal versante italiano, i maggiori vantaggi offerti dal distacco si hanno sotto il profilo fiscale potendosi applicare, se il dipendente continua ad essere fiscalmente residente in Italia, le retribuzioni convenzionali di cui all’art. 51, co. 8-bis, Tuir e sotto il profilo previdenziale poiché, grazie al distacco, se il dipendente è inviato in Paesi UE, dello Spazio economico europeo, in Svizzera o in Stati previdenzialmente convenzionati con l’Italia, questi continuerà, entro determinati limiti di tempo, a essere iscritto solo alla previdenza italiana in deroga al principio generale secondo cui i contributi vanno assolti nello Stato in cui è svolta l’attività lavorativa. Dal punto di vista previdenziale, tuttavia, restano notevoli criticità in casi di invio in Paesi extraUE non convenzionati (come per es. India e Cina) in quanto il dipendente (e l’azienda) dovrà continuare a contribuire (anche) in Italia (secondo quanto stabilito dalla L. n. 398/1987).

Alla localizzazione, infine, si ricorre quando vi sono esigenze “più stabili” nel Paese estero e, solitamente, dopo qualche anno di distacco del lavoratore, che è in tal modo stato testato dall’azienda. In tal caso, evidentemente, si ha un rapporto di lavoro a tutti gli effetti di diritto estero che, sotto il profilo fiscale, qualora il dipendente resti fiscalmente residente in Italia, non precluderebbe comunque l’applicazione delle retribuzioni convenzionali determinate dallo stesso dipendente in dichiarazione, mancando un sostituto di imposta italiano. Dal punto di vista previdenziale, invece, restano evidenti criticità legate da un lato al fatto che, se non si tratta di Paesi extraUE, con la localizzazione viene “spezzata” la continuità contributiva del dipendente (a cui si potrà ovviare ricorrendo all’istituto della totalizzazione) e dall’altro al fatto che se il dipendente è destinato a lavorare in Paesi extra-UE, trova applicazione la doppia contribuzione (nel Paese estero e in Italia) in forza di quanto previsto dalla citata L. n. 398/1987.

In tutte le ipotesi sopra menzionate, infine, potrebbero porsi problemi legati alla doppia imposizione fiscale nello Stato di residenza del lavoratore e in quello di svolgimento dell’attività lavorativa, che saranno oggetto di approfondimento in un prossimo intervento.