4 Febbraio 2015

La (nuova?) responsabilità dei liquidatori

di Maurizio Coser
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La recente modifica introdotta dal Decreto Semplificazioni all’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973, con riferimento alla responsabilità dei liquidatori per il pagamento delle imposte dovute dalla società liquidata, sta scatenando dibattiti (e preoccupazioni) alla luce delle (presunte) gravi conseguenze che detta novità avrebbe sulla velocità e (soprattutto) sui rischi con cui le procedure liquidatorie possano essere condotte a termine.

E’ ormai noto che i liquidatori, a seguito della modifica de qua, “rispondono in proprio del pagamento delle imposte [dovute per il periodo della liquidazione e per quelli anteriori] se non provano di aver soddisfatto i crediti tributari anteriormente all’assegnazione di beni ai soci o associati, ovvero di avere soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari”.

Ebbene, la novità non consiste nella responsabilità personale e patrimoniale dei liquidatori, già prevista (in modo pressoché identico) nella versione previgente dell’art. 36, ma semplicemente nell’inversione dell’onere della prova: mentre prima era l’Ufficio fiscale a dover provare che i liquidatori non avevano adempiuto all’obbligo del soddisfacimento privilegiato dei crediti tributari, ora sono i liquidatori a dover fornire tale prova (ovviamente contraria), potendo l’Ufficio limitarsi a dimostrare l’esistenza di crediti tributari rimasti insoddisfatti.

Quindi non sembra sia cambiato granché, quantomeno nella sostanza: se il liquidatore adempie correttamente ai propri obblighi (rispettando i gradi di privilegio siccome stabiliti dall’art. 2777 Cod.Civ.), evidentemente non avrà nulla da temere, perché potrà sempre “provare” di non aver agito in danno dell’Erario.

La questione si complica, e nascono i dubbi e (soprattutto) le preoccupazioni, perché il Decreto Semplificazioni, parallelamente alla modifica dell’art. 36 citato, ha previsto che “ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società di cui all’articolo 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese.

Non serve, in questa sede, dilungarsi sulle (note) motivazioni che hanno indotto il Governo ad emanare siffatta disposizione.

Ciò che qui interessa, piuttosto, è notare come la lettura congiunta delle suddette novità normative induce i commentatori alla seguente conclusione: poiché la società liquidata può (ora) essere oggetto di pretese accertative e/o liquidatorie che si manifestano e vengono azionate in epoca successiva alla sua cancellazione, se tali pretese si trasformano in “crediti tributari privilegiati” (sia perché gli atti accertativi/liquidatori non vengono impugnati, sia perché, laddove impugnati, si arrivi ad una sentenza sfavorevole definitiva), i liquidatori potrebbero essere chiamati a risponderne personalmente ex art. 36.

Viene quindi suggerito ai liquidatori medesimi di accantonare un apposito “fondo rischi fiscali potenziali” – cui corrisponda un parallelo fondo di liquidità – da utilizzarsi, a fronte di accadimenti come quelli sopra descritti, per soddisfare detti crediti tributari (una volta che si siano resi definitivi) e così fornire la “prova” richiesta dal più volte citato art. 36.

Con ciò sacrificando, evidentemente, il pagamento di debiti di grado inferiore a quelli fiscali nonché la distribuzione ai soci dell’attivo di liquidazione, per un importo pari al fondo accantonato.

In altri termini, e più sinteticamente, la tesi sottostante al suggerimento sopra descritto si basa sulla considerazione che tra i crediti tributari da soddisfare in via privilegiata rientrino non solo quelli conclamatisi nella fase liquidatoria, ma anche quelli meramente potenziali, che cioè si manifestino, in concreto, nell’an e nel quantum, solo successivamente alla conclusione della procedura liquidatoria ed alla cancellazione della società.

Ebbene, simile conclusione non può essere condivisa, per motivi di ordine pratico ma soprattutto giuridico.

In particolare, dal punto di vista giuridico occorre sottolineare la profonda differenza che esiste tra responsabilità dei soci e responsabilità dei liquidatori:

  • è pacifico che la responsabilità dei soci (prevista dall’art. 36 comma 3 e, in via più generale, dall’art. 2495 Cod. Civ., in base al quale “i creditori sociali [tra cui l’Erario] non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino a concorrenza delle somme da questi riscosse”) si fonda su un rapporto giuridico di successione;
  • la responsabilità dei liquidatori è invece riferita ad un debito proprio, distinto dalla obbligazione tributaria della società, anche se a questa commisurata.

Ciò significa che, mentre ai soci può essere imputato – per effetto della norma speciale ex art. 36 del D.P.R. n. 602/1973 e generale ex art. 2495 Cod. Civ. – il debito di imposta scaturente dalla fattispecie impositiva realizzata dalla società (alle condizioni e nei limiti previsti dalla norma), la ragione giustificatrice della responsabilità dei liquidatori non può che essere quella della violazione dei doveri del liquidatore, in grado di far sorgere una specifica fattispecie, non fondata sulla capacità contributiva del soggetto, bensì sull’illecito oggettivo.

In questo senso, si esprime la stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione, quando afferma che la responsabilità del liquidatore ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973 è una “autonoma obbligazione legale che insorge quando ricorrono gli elementi obiettivi della sussistenza di attività nel patrimonio della società in liquidazione e della distrazione di tali attività a fini diversi dal pagamento delle imposte dovute”.

Con la conseguenza che, mentre il pagamento di debiti di imposta conclamatisi e divenuti certi ed esigibili successivamente alla cancellazione potrà sempre essere coercitivamente preteso dai soci, ai liquidatori sarà consentito sottrarsi a tale responsabilità “provando” di non aver violato il dovere imposto dal più volte citato art. 36.

Traducendo in pratica tale principio, se ne conclude che giammai potrà essere attribuita al liquidatore la colpa di aver pretermesso il pagamento di un debito fiscale privilegiato allorquando tale debito semplicemente fosse stato inesistente al momento del pagamento di debiti con privilegio inferiore (o dell’assegnazione ai soci dell’attivo di liquidazione).

E la prova della mancanza di colpa potrà essere fornita dimostrando di aver impiegato la massima diligenza professionale richiesta dalla propria funzione, nella verifica dell’esistenza di debiti fiscali antecedentemente al pagamento di debiti di rango inferiore ovvero dell’assegnazione ai soci dell’attivo di liquidazione.

A tal fine, gli strumenti di verifica che il liquidatore può attivare (lasciandone traccia documentale da offrire come “prova” della mancanza di colpa) sono numerosi:

  • richiesta di eventuali estratti di ruolo presso il competente Agente della riscossione;
  • accesso al Cassetto fiscale della società per verificare l’esistenza di eventuali comunicazioni di irregolarità rimaste inevase;
  • richiesta al locale Ufficio dell’Agenzia delle entrate della certificazione dei carichi pendenti ex art. 14, comma 3, D.Lgs. n. 472/1997.

Aderire alla tesi opposta, ovvero quella che ritiene i liquidatori comunque responsabili del pagamento dei debiti tributari sorti a seguito di pretese fiscali azionate (per la prima volta) successivamente alla cancellazione della società, condurrebbe a conseguenze pratiche paradossali: è infatti evidente che, per evitare qualsiasi rischio, i liquidatori sarebbero indotti ad astenersi dall’eseguire qualsiasi pagamento di debiti diversi da quelli fiscali, non potendo escludere a priori il futuro manifestarsi di debiti fiscali, che in quel momento risultano tuttavia sconosciuti.