Sì al rimborso IVA anche se l’attività non dà profitto
di Guido MartinelliMarta SaccaroCon la sentenza n. 20713 del 1° ottobre 2014 la quinta sezione della Corte di Cassazione, sez. civ., afferma che, per ottenere il rimborso dell’IVA non è necessario che l’attività economica sottostante generi un profitto ma è sufficiente che abbia carattere di stabilità. Il caso oggetto della sentenza è quello di un Comune che aveva richiesto il rimborso dell’IVA assolta sulle spese di ristrutturazione e di illuminazione dell’impianto sportivo concesso in uso a terzi dietro il versamento di un corrispettivo. L’attività non era quindi finalizzata alla realizzazione di un profitto ma semplicemente all’utilizzo dell’impianto.
Secondo la Suprema Corte questa circostanza è sufficiente a legittimare la richiesta di rimborso dell’IVA. La Sentenza osserva infatti che il punto di riferimento è l’art. 4 della Sesta direttiva CEE (Direttiva 17 maggio 1977, n. 77/388/CE), che, dopo avere stabilito che si considera soggetto passivo dell’imposta chiunque eserciti un’attività economica, fa presente che di considera “attività economica” un’operazione che comporti lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi un certo carattere di stabilità”. In proposito, la sentenza osserva poi che nella giurisprudenza comunitaria non si rinviene una precisa definizione del concetto di “introiti aventi un certo carattere di stabilità”, ma è invece pacifico che:
- “l’attività economica viene considerata di per sé, indipendentemente dai suoi scopi o dai suoi risultati” (Corte di giustizia europea, Sentenza 29 ottobre 2009, C-246/08);
- ciò che qualifica ai fini impositivi una operazione di carattere economico è la nozione di “sfruttamento”, intesa come operazione che miri a trarre da un bene introiti con carattere di stabilità (Sentenza 4 dicembre 1990, C-186/89);
- “una attività economica è considerata economica quando presenta un carattere stabile ed è svolta a fronte di un corrispettivo percepito dall’autore della prestazione” (Sentenza 13 dicembre 2007, C-408/06).
Nella sostanza, quindi, la Corte di Cassazione osserva che, in base all’orientamento comunitario, per essere rilevante agli effetti dell’IVA l’attività economica svolta deve essere considerata di per sé, indipendentemente dai suoi scopi o dai suoi risultati.
Secondo la Suprema Corte, quindi, “non è l’idoneità dell’attività economica a produrre un reddito a renderla oggetto di imposizione, ma semmai la riconducibilità di essa al concetto di sfruttamento del bene, inteso come la possibilità di ritrarre da esso in modo stabile un’utilità sotto forma di percezione di un corrispettivo”.
Non si conoscono esattamente nel dettaglio le modalità di svolgimento dell’attività che ha dato vita al contenzioso. Si può supporre tuttavia che la fattispecie non sia molto dissimile a ciò che avviene nella maggior parte dei casi in cui l’ente pubblico affida in gestione un impianto di proprietà ad un soggetto terzo: la concessione viene riconosciuta dietro il pagamento di una determinata somma. A questo proposito, si sottolinea la necessità che, in ogni caso, il canone pattuito venga determinato secondo criteri oggettivi e compatibili con l’utilizzo e la valorizzazione dell’impianto.
In pratica, quindi, tutte le spese sostenute per la costruzione o la ristrutturazione o il riammodernamento dell’impianto restano a carico dell’Ente proprietario nonostante, per garantirne il funzionamento, l’impianto sia affidato in concessione a terzi. Date queste premesse è evidente che il rapporto tra costi (complessivi, strutturali e contingenti) e ricavi rimanga costantemente in disequilibrio e l’ente proprietario sia sempre a credito dell’IVA assolta sulle spese sostenute. La circostanza, però, che sussista un rapporto che stabilmente affida a terzi la gestione dell’impianto dietro corrispettivo, a prescindere dalla redditività di questa operazione consente, secondo la Suprema Corte di legittimare la sussistenza dell’attività economica rilevante agli effetti dell’IVA.
Il punto, secondo la Cassazione, non è infatti la circostanza che l’attività sia finalizzata ad ottenere un guadagno o un profitto: “l’assoggettamento ad imposizione delle attività economiche è conseguenza della mera circostanza che lo sfruttamento del bene generi un introito, sicché la constatazione che un introito, sia pur esiguo, vi sia stato e che nessun altro presupposto impositivo risulti nella fattispecie carente è sufficiente a ricondurre l’attività al campo di applicazione dell’Iva”.
Rilevante è poi anche l’ultima conclusione contenuta nella pronuncia. Secondo la Corte, infatti, anche a prescindere dalla ricostruzione operata – eseguita in conformità alle pronunce del Legislatore comunitario – ritenere non assoggettabile ad IVA l’operazione in oggetto comporterebbe, sì, l’impossibilità di chiedere il rimborso delle somme pagate in eccesso ma produrrebbe anche una “intollerabile contrazione del gettito”: in questo modo, infatti, non sarebbero più assoggettabili all’imposta tutte le operazioni che generano “un’esiguità di ricavi”.