1 Novembre 2014

Il ruolo del professionista nell’affitto d’azienda: le conseguenze penali

di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365
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L’
affitto d’azienda, in riferimento ad una situazione di crisi, consente la continuazione dell’attività ed il mantenimento dei valori aziendali, elementi oltremodo utili nell’ottica di una futura liquidazione. La giurisprudenza della Corte di Cassazione si è spesso interessata a tale istituto, soprattutto nell’ambito di pericolosi
usi distorti, per penalizzare tutte quelle situazioni in cui il fitto d’azienda, effettuato in prossimità dell’accesso ad una procedura concorsuale, in realtà ha perseguito finalità definibili quali “
distrattive” e per questo perseguibili in ambito penale.
La problematica sottostante riguarda il
ruolo del professionista ed il rischio, da non sottovalutare, che lo stesso sia coinvolto sul piano delle responsabilità quale fautore del piano evasivo/distrattivo, per aver egli in concreto consigliato il ricorso a tale strumento contrattuale.
Nel tempo diverse sono state le situazioni in cui la Corte di Cassazione ha prefigurato la rilevanza penale del comportamento adottato mediante il fitto d’azienda, soprattutto in quelle circostanze in cui la finalità realmente perseguita è stata ulteriore rispetto alla mera continuità dei valori aziendali.
Solitamente i reati societari, fallimentari e tributari
sono di tipo proprio, ossia commessi solo dal soggetto, c.d.
Intraneus, che riveste una posizione qualificata (ad esempio, l’imprenditore o l’amministratore). Data però la complessità del sistema normativo in cui si opera, spesso per il compimento del meccanismo evasivo il soggetto
si avvale dell’ausilio di un professionista quale soggetto c.d.
Extraneus.
Affinché ricorra il concorso nel reato commesso dai clienti è però necessario che il professionista abbia fornito un contributo causale al realizzarsi del fatto.
La Corte di Cassazione spesso sottolinea che la gravità dell’azione del professionista ed il relativo giudizio di pericolosità sono ancorati proprio alle
competenze professionali che consentono di essere “coordinatore e regista” del piano evasivo (tra le altre, la recente sentenza n. 23522 del 5 giugno 2014 è esplicita sul tema). In particolare, è indispensabile che sia il professionista ad indicare,
in concreto, la strada utile per porre in essere l’espediente illecito, conoscendone le motivazioni, le necessità e i risultati che si volevano raggiungere, non essendo sufficiente la sola illustrazione delle diverse ipotesi configurabili.
Una simile posizione può essere percepita in maniera penalizzante per lo svolgimento dell’attività consulenziale.
Sul tema è la medesima Corte di Cassazione a delineare i confini della responsabilità del professionista. Lo stesso, infatti,
non può essere ritenuto responsabile qualora abbia
semplicemente indicato delle ipotesi alternative rispetto alla fattispecie da esaminare, illustrando al cliente le possibili conseguenze delle varie soluzioni e senza in alcun modo incentivare l’applicazione di una di esse. Se invece il suo ruolo
è determinante, concreto e attivo nella scelta perseguita, allora la responsabilità è implicita.
Esemplificativa è la sentenza n. 19545 del 2010, in tema di bancarotta fraudolenta: “
il concorso del commercialista, dell’avvocato o del consulente fiscale nei fatti di bancarotta ricorrerà in termini di concretezza quando, consapevoli dei propositi distrattivi dell’imprenditore o degli amministratori della società, forniscano consigli sui mezzi giuridici idonei a sottrarre beni ai creditori o li assistano nella conclusione dei relativi negozi ovvero ancora svolgano attività dirette a garantire l’impunità o a favorire o rafforzare, con il proprio ausilio o con le proprie preventive assicurazioni, l’altrui proposito criminoso”.
Appare inutile sottolineare che comunque resta indispensabile la
prova del contributo, sia materiale che morale, da parte del professionista alla realizzazione del reato. Ma se ciò è conclamato, nulla potrà evitare il suo coinvolgimento.
Nel caso del fitto d’azienda le esemplificazioni di ipotesi penalmente rilevanti sono numerose. Trattasi ad esempio delle casistiche in cui l’obiettivo è stato di
mantenere la disponibilità dei beni alla famiglia dell’imprenditore o della compagine societaria in odore di fallimento (sentenza n. 49642 del 2009), ovvero delle ipotesi di fitti con
canoni incongrui o addirittura privi di contropartita ed aventi la sola finalità di avvantaggiare i soci e penalizzare i creditori (sentenza n. 44891 del 2008).
È inutile effettuare giri di parole: far porre in essere, quali registi nemmeno tanto occulti, tali operazioni ai propri clienti, con il solo fine distrattivo e/o di conservazione della disponibilità dei beni ed a totale scapito dei creditori (incluso in fisco, con implicito reato di
sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte), non può che condurre a spiacevoli conseguenze.
Al che, se è lecito aiutare e assistere il cliente, ciò deve avvenire nei limiti della legalità e nel rispetto della deontologia professionale, apparendo del tutto autolesionista correre rilevanti rischi penali.