Non c’è pace per le cessioni d’azienda
di Sergio PellegrinoCorte di Cassazione è tornata, con la
sentenza n. 21632/14 del 14 ottobre, ad affrontare il tema, annoso, degli
accertamenti sulle
compravendite di complessi aziendali.
favorevole al contribuente accertato, vincitore in primo grado e soccombente nel secondo, che ha visto cassata la sentenza impugnata con il rinvio ad altra sezione della CTR Basilicata.
“automatica” estensione
del maggior valore accertato ai fini dell’imposta di registro anche dal punto di vista delle imposte sui redditi, con la conseguente rideterminazione della plusvalenza dichiarata.
norma di comportamento AIDC n. 171 del 2008: “
In caso di cessione di azienda la definizione di un maggior valore ai fini dell’imposta di registro non assume automatica efficacia ai fini delle imposte dirette”.
ragionamento tanto semplice, quanto universalmente disatteso (dall’Agenzia), e cioè il fatto che i meccanismi impositivi nei due comparti sono imperniati su logiche diverse: ai fini dell’
imposta di registro si ha riguardo al
valore di mercato del bene, mentre con riferimento alle
imposte dirette, la plusvalenza è costituita dalla
differenza realizzata tra il prezzo di cessione convenuto dalle parti nell’esercizio della loro autonomia negoziale e il costo non ammortizzato.
motivazione dell’accertamento ai fini delle imposte dirette non può essere sufficiente, come quasi sempre ci capita di vedere,
la sola indicazione dell’importo definito ai fini dell’imposta di registro, senza ulteriori elementi di prova in relazione al maggior prezzo di realizzo che l’Amministrazione Finanziaria assume come conseguito nella compravendita. Questo anche alla luce del fatto che la definizione del maggior valore ai fini del registro, “accettata” dall’acquirente, nella maggior parte dei casi deriva da una sua
scelta di opportunità: piuttosto che intraprendere un contenzioso pieno di incognite, visto che si discute di
quantificazione del valore venale, questi sarà “naturalmente” portato a chiudere la partita con un accertamento con adesione, beneficiando così della riduzione delle sanzioni (ma mettendo altresì “in crisi” il venditore sul versante delle dirette).
legittimo per l’ufficio procedere ad un accertamento induttivo ai fini dei redditi partendo dal maggior valore dell’azienda accertato nell’ambito dell’imposta di registro: c’è un’inversione dell’onere della prova, perché il contribuente deve
“superare la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato rispetto al valore di mercato, dimostrando (anche con il ricorso ad elementi indiziari) di avere in concreto venduto proprio al prezzo (inferiore) indicato in bilancio”.
prova “diabolica”, ossia la dimostrazione di non aver fatto qualcosa: nel caso di specie di non aver incassato un importo maggiore rispetto a quello dichiarato.
non è stata quindi cassata per un opportuno, almeno dal nostro punto di vista, mutamento degli orientamenti della Cassazione, ma solo per il fatto che il giudice di appello ha ritenuto di essere
vincolato agli accertamenti svolti dal giudice tributario nell’ambito del procedimento relativo alla determinazione dell’imposta di registro,
ritenendoli coperti dal giudicato, senza esaminare gli elementi avanzati dal contribuente per superare la presunzione semplice utilizzata dall’ufficio.
“giudicato interno”, afferma la sentenza della Cassazione, atteso il fatto che i giudizi riguardano due comparti impositivi distinti.
nella speranza che la valutazione delle motivazioni addotte dal contribuente per superare la presunzione “maggiore valore accertato ai fini del registro = maggiore plusvalenza nei redditi” siano giudicate convincenti dai giudici.