11 Ottobre 2014

Ritenute cinesi in cerca di scomputabilità

di Ennio VialVita Pozzi
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Capita a diverse imprese residenti in Italia di fornire servizi di
progettazione di
disegni industriali a clienti di Paesi asiatici come, ad esempio, residenti in Cina.
In questi casi il cliente applica talora al prestatore italiano delle
ritenute sul
compenso. Valutare se queste ritenute siano legittime o meno non ci compete, in quanto dipendono dalla
normativa interna della Cina che ben potrebbe decidere di far scattare il
presupposto impositivo per i non residenti solo per il fatto di aver erogato una prestazione ad una loro impresa.
In questa sede è invece opportuno valutare se tale
ritenuta sia scomputabile dalle imposte italiane sotto forma di credito di imposta.
Innanzitutto, va rilevato come in base all’art.
165 co. 2 del tuir
i redditi si considerano prodotti all’estero sulla base di criteri reciproci a quelli previsti dall’articolo 23 per individuare quelli prodotti nel territorio dello Stato”.
In sostanza, un reddito si considera
prodotto all’estero quando il
medesimo reddito si considera
prodotto in Italia se realizzato da un non residente.
L’impostazione normativa è nota e si propone il seguente esempio:
non è
scomputabile il
credito su interessi
attivi subiti da un residente italiano su
conti correnti detenuti all’estero in quanto, in base all’art. 23, gli interessi sui conti correnti percepiti da un non residente
non sono
considerati un
reddito prodotto in Italia.
La questione, invero, potrebbe essere superata dal
dettato convenzionale, ma proseguiamo per il momento la nostra analisi.
L’art. 23, comma 2, lett. c) stabilisce che si considerano prodotti nel territorio dello Stato, se corrisposti da soggetti residenti in Italia, “
i compensi per l’utilizzazione di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di marchi d’impresa nonché di processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico”.
La norma allude alla casistica dei
canoni, ipotesi che pur potendosi verificare, non si concretizza quando viene ceduto in toto il diritto a
sfruttare il bene in quanto più che un canone la prestazione si configura piuttosto come la
cessione di un bene immateriale oppure come una
prestazione di servizi di tipo professionale/consulenziale.
Lo
scomputo del credito appare quindi
precluso.
E’ interessante a questo punto validare questa conclusione leggendo la
convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra l’Italia e il Governo della Repubblica Popolare Cinese.
Ebbene, l’art.
7 del Trattato, in linea con il modello OCSE, prevede la non
tassabilità dell’impresa estera in terreno cinese in assenza di una
stabile organizzazione.
Sempre in linea con il modello standard, tuttavia, l’ultimo paragrafo ammette
delle eccezioni nel caso in cui norme specifiche della convenzione dispongano una
potestà impositiva pur in
assenza di una stabile. E’, ad esempio, il caso dei
fabbricati disciplinati dall’art. 6 che sono assoggettabili a tassazione nello stato in cui sono ubicati a prescindere dalla sussistenza della branch.
Vi sono
convenzioni come quella con
San Marino che ammettono
l’applicazione di
ritenute alla
fonte.
L’art. 14, ad esempio, stabilisce che, in relazione alle persone fisiche, gli Stati possono
tassare a
prescindere dalla sussistenza della
base fissa.
Il citato articolo stabilisce che “
i redditi che una persona fisica residente di uno Stato contraente ritrae dall’esercizio di una libera professione o da altre attività analoghe di carattere indipendente sono imponibili in detto Stato. Tali redditi sono imponibili anche nell’altro Stato contraente secondo la propria legislazione interna.
Si ricordi inoltre il caso della
Convenzione con la Tunisia che abbiamo affrontato in un
precedente intervento
Nel caso della
Cina, tuttavia, una simile previsione
manca per cui lo
Stato della fonte
non deve
tassare l’impresa italiana, e se interviene la ritenuta il contribuente italiano ha per certo il
diritto al rimborso.