3 Ottobre 2014

Costi black list e convenzioni contro le doppie imposizioni

di Fabio Landuzzi
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Ai sensi dell’art.110, comma 10, del Tuir, i
costi derivanti da operazioni intercorse con soggetti residenti e fiscalmente domiciliati in
Stati black list sono
indeducibili a meno che, alternativamente, venga fornita una delle
circostanze esimenti previste, ovvero: la prova che l’impresa estera svolge prevalentemente
un’attività commerciale effettiva; oppure, la prova che le operazioni compiute rispondono ad un
effettivo interesse economico ed hanno trovato
concerta esecuzione.
Questa norma presenta però un apparente, e vedremo non solo tale,
conflitto con la clausola di non discriminazione (art.24, par.5, Convenzione Modello Ocse) che è contenuta nelle
convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia con alcuni Stati inclusi nella Black list secondo la quale i
requisiti per la deducibilità dei costi non possono essere più onerosi quando il soggetto che riceve il pagamento è un residente dell’altro Stato contraente. In altri termini, i costi sostenuti per operazioni compiute fra soggetti residenti negli Stati contraenti devono soggiacere alle
stesse condizioni che sarebbero applicate se la transazione avvenisse fra soggetti dello stesso Stato.
Il tema è stato anche oggetto di una
sentenza della Commissione Tributaria di Milano del 13 dicembre 2012 n. 294 la quale ha effettivamente riconosciuto, in un caso che vedeva coinvolta una società italiana per operazioni intercorse con imprese residenti in Svizzera, in Malesia ed a Singapore, la
supremazia della norma convenzionale rispetto a quella nazionale, ed ha quindi ritenuto pienamente deducibili i costi in questione.
Va osservato che l’attenzione posta dal Legislatore italiano al tema dei costi Black list ha radici lontane, a partire dalla
Legge n.413/91, limitatamente ai rapporti infragruppo, e poi allargata in seguito con la
Legge n.342/2000.
L’aspetto temporale è importante in quanto nelle
Convenzioni stipulate dall’Italia dopo il 1991 la clausola di non discriminazione ha previsto
una deroga specifica diretta a consentire l’applicazione di quelle norme interne che sono volte a impedire l’evasione e l’elusione fiscale. Le
Convenzioni contro le doppie imposizioni con Stati Black list
stipulate dopo il 1991 e che contengono queste deroghe sono quelle con il
Libano, l’
Oman e gli
Emirati Arabi Uniti. Per questi Stati, quindi, si può ritenere che
non sussista un pieno conflitto della norma interna di cui all’art.110, co.10, del Tuir, con la clausola di non discriminazione contenuta nella Convenzione contro le doppie imposizioni.
Diversamente, per gli
Stati con i quali il Trattato contro le doppie imposizioni è anteriore al 1991, il tema del
conflitto fra la norma nazionale e quella sovranazionale si pone in pieno; si tratta dei casi delle
Filippine, della
Malesia, della
Svizzera, delle
Mauritius, di
Singapore e dell’
Ecuador, le cui Convenzioni non contengono analoghe deroghe esplicite al divieto di non discriminazione.
Per le operazioni con imprese residenti in tali Stati, è quindi ragionevole interrogarsi se esista un oggettivo conflitto fra le due norme, ovvero se l’art.110, co.10, del Tuir imponga
condizioni più onerose per la deduzione fiscale dei costi rispetto a quelle che sarebbero altrimenti previste se la stessa transazione fosse eseguita fra imprese italiane.
Difficilmente può darsi una risposta non affermativa a questo interrogativo, dato che
le condizioni imposte dal citato art.110
vanno ben oltre l’usuale principio di inerenza che è condizione generale e comune per la deduzione dei costi nel reddito d’impresa. In considerazione della prevalenza delle norme convenzionali rispetto a quelle nazionali in forza del
“principio di specialità” può quindi obiettivamente concludersi che nella parte in cui
il D.M. 23 gennaio 2002 include nell’elenco di Stati Black list anche alcuni (quelli citati) con cui è in vigore una
Convenzione contenente senza deroghe la clausola di non discriminazione, lo stesso si pone
in contrasto con la norma convenzionale nei confronti della quale lo stesso deve soccombere.
Logica conclusione di questa posizione,
se verrà confermata dalla giurisprudenza che se ne occuperà, è che gli
obblighi, ivi inclusi quelli segnaletici,
per tali operazioni con questi Stati Black list sarebbero da ritenersi
inefficaci stante la illegittimità della fonte normativa.