30 Settembre 2014

KO l’accertamento basato sulle percentuali di ricarico

di Nicola Fasano
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Accertamento
illegittimo se l’Ufficio si limita a contestare lo
scostamento del contribuente rispetto alle
medie di settore, senza disconoscere la
regolarità delle scritture contabili. Queste, in estrema sintesi, le conclusioni a cui è giunta la Cassazione con la
sentenza n. 20096/2014.
Un’impresa individuale veniva accertata per l’anno di imposta 1998 sulla base della
percentuale di ricarico medio per categorie omogenee di merce, superiore rispetto a quella applicata dal contribuente. L’Ufficio pertanto
recuperava a tassazione i presunti maggiori ricavi. Il contribuente presentava ricorso e la CTP di Pavia gli
dava ragione. In appello, tuttavia, il verdetto era
ribaltato, in quanto la CTR Lombardia riteneva che fosse legittimo l’accertamento induttivo, ex art. 39, comma 1, lett. d.P.R. n. 600/73 in presenza di un divario tra il ricarico applicato dal contribuente e quello risultante dalla media ponderale applicata dall’Ufficio.
La Cassazione, invece, ha
censurato l’accertamento dell’Ufficio, riformando la sentenza di secondo grado rinviata alla CTR, concludendo che in presenza di una contabilità
formalmente regolare, la legittimità dell’accertamento, in via analitico-induttiva, di maggiori redditi da parte dell’Ufficio postula
l’abnormità e
l’irragionevolezza della difformità tra la percentuale di ricarico applicata dal contribuente e la media di settore, tale da
incidere sull’attendibilità complessiva della dichiarazione, in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, soprattutto sotto il profilo
dell’antieconomicità del comportamento del contribuente. Solo in presenza di tale situazione, secondo la Corte, è consentito all’Ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di
presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi, anche mediante il ricorso alle percentuali di ricarico, con la conseguenza che l’onere della prova, in siffatta ipotesi, si
sposta a carico del contribuente.
L’Ufficio, dunque, non si può
limitare a contestare lo scostamento rispetto alle medie di settore. Ciò anche in considerazione del fatto che le medie di settore
non costituiscono un “fatto noto”, storicamente provato, dal quale è sufficiente argomentare, con giudizio critico, quello ignoto da provare, ma, costituendo soltanto il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati disomogenei, risultano
inidonee, di per sé stesse, ad integrare gli estremi di una valida
prova per
presunzioni. Ne discende, pertanto, che, ai fini di legittimare il ricorso, in via analitico-induttiva, all’accertamento di maggiori redditi da parte dell’Ufficio, occorre che risulti la sussistenza, in concreto, di
qualche elemento ulteriore, individuabile – secondo la Cassazione – nell’abnormità e nell’irragionevolezza della difformità tra la percentuale di ricarico applicata dal contribuente e la media di settore, tale da incidere sull’attendibilità complessiva della dichiarazione (cfr. Cass. 20201/10; 27488/13).
Nel caso di specie, invece, la sentenza impugnata – dopo avere dato atto della
regolarità formale, desumibile dallo
stesso processo verbale di constatazione, della contabilità tenuta dal contribuente – fonda le decisione adottata
esclusivamente sulla difformità tra il ricarico applicato dal contribuente e quello medio del settore.
Mentre non viene in alcun modo indicato dalla CTR
in quale misura tale divario sia stato riscontrato dall’Ufficio, sì da poter indurre il medesimo a concludere per l’inattendibilità intrinseca della contabilità aziendale, e da far apparire abnormi e irragionevoli i risultati economici ivi esposti. Ne discende che l’accertamento induttivo- analitico effettuato dall’Amministrazione, in totale carenza di tali elementi, non può che essere considerato
illegittimo, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di appello.
È appena il caso di evidenziare che la pronuncia, seppur concluda per l’annullamento dell’avviso di accertamento, desta
qualche perplessità laddove, leggendola a contrario, richiama la famigerata “
antieconomicità” quale elemento idoneo a legittimare l’accertamento analitico-induttivo. Elemento che spesso diventa fin
troppo “discrezionale” e consente di fatto all’Amministrazione di sindacare le scelte imprenditoriali in applicazione del principio, molto semplicistico, secondo cui ad un imprenditore che guadagna poco (o chiude in perdita) “
converrebbe fare il dipendente”, ma, soprattutto nel triste contesto degli ultimi anni, ci possono essere mille e più ragioni che smentiscano tale assunto (crisi di aziende clienti molto importanti, prezzi della concorrenza sempre più “competitivi”, dipendenti che non si vuole “lasciare a casa”, ecc.).