23 Settembre 2014

L’uso indiscriminato dell’antieconomicità

di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365
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L’antieconomicità è continuamente utilizzata come concetto accertativo “forte” per validare i controlli effettuati, quasi che fosse la panacea di qualsiasi difetto delle ricostruzioni del fisco. La pratica professionale recente evidenzia sempre di più questa contestazione, che viene paventata anche a prescindere da minime riflessioni di razionalità; ormai secondo alcuni uffici è sufficiente avere risultati
minori delle remunerazioni dei dipendenti o addirittura in perdita per avere immediata tale contestazione.
Come è noto, l’assunto è usato in diverse forme, sia quale presunzione “onnicomprensiva” rispetto all’attività svolta, sia quale elemento di irrazionalità della singola operazione effettuata. Nel primo caso è sufficiente pensare al riscontro di risultati
non ritenuti in linea con un normale e razionale comportamento imprenditoriale; nella seconda ipotesi deve farsi riferimento alla valutazione di parametri che evidenziano come la
singola operazione sia del tutto distante dai comportamenti normalmente assunti (il caso classico è rappresentato dal prezzo di un immobile di molto al di sotto dei valori delle altre compravendite).
La seconda ipotesi ovviamente può ricorrere in
qualsiasi momento. Se il prezzo di vendita praticato è del tutto sottostimato rispetto a quelli usuali, è probabile che qualcosa si è inteso nascondere (oppure, nel caso opposto, di costi spropositati, probabilmente si è in presenza di “spostamenti” di imponibili verso situazioni più favorevoli, magari a vantaggio di chi ha perdite in pancia o grossi crediti IVA). La difesa è standard: dimostrare i fattori economici che hanno condotto alla scelta di effettuare quella singola operazione a quel determinato prezzo. Tornando al caso classico della vendita dell’immobile ad un prezzo basso, è
opportuno
corredare tale vendita di tutte le spiegazioni possibili e immaginabili. Dalla perizia del tecnico che attesta lo stato dello stesso (fatiscente, con rifiniture non importanti, con materiale di risulta etc), alle condizioni oggettive (assenza di mezzi di comunicazione, zone disagiate, presenza di locali rumorosi, esposizione al sole, etc), fino ad arrivare alle motivazioni di bilancio e/o finanziarie (ad esempio, richiesta della banca di rientrare con indisponibilità di risorse e correlata vendita urgente, pur se ad un prezzo inferiore).
La prima casistica dell’antieconomicità dei risultati invece inizia a destare più di una
perplessità a causa dell’uso indiscriminato che ne viene fatto. Bisogna essere onesti. Assistere, negli anni fino al 2007, alla presentazione di continui bilanci a dir poco
illeggibili, con società indebitate alla follia e soci che “allegramente” continuavano a corrispondere denaro, pur non venendo mai remunerati, era qualcosa di assolutamente non giustificabile.
Queste le caratteristiche di alcuni bilanci: situazioni patrimoniali disastrate; rimanenze finali crescenti;
debiti verso banche e fornitori esponenziali; acquisti comunque in crescita nonostante vendite contenute; costi esponenziali anche se non “indispensabili”, soprattutto in presenza di risorse scarse; conti cassa con andamenti come minimo anomali; continui interventi dei soci finalizzati a “regolarizzare” il conto
cassa, a fronte di risorse reddituali irrisorie da parte degli stessi;
remunerazione dei soci o dell’imprenditore quasi totalmente
assente. È evidente che tali risultati, se ripetuti nel tempo, legittimamente causavano la declaratoria di antieconomicità dell’attività svolta ed è abbastanza pacifico che tale contestazione fosse non difendibile in maniera agevolata.
Invero, a fronte di simili situazioni, se davvero causate da fattori di crisi, qualsiasi imprenditore di buon senso proverebbe a porre rimedio, adottando tutte le misure necessarie, tanto che una delle migliori tecniche difensive a fronte delle contestazioni di antieconomicità è proprio
dimostrare che in realtà si era in presenza di
elementi di crisi, rispetto ai quali sono state poste in essere le adeguate contromisure.
Il problema attuale però è che si assiste ad una presa di posizione “quasi” di
preconcetto assoluto. Effettuo due esempi di pratica professionale di cui recente mi sono occupato. Da un lato, accertamento nei confronti di un professionista (ingegnere), che in un triennio di osservazione (2008/2010), ha manifestato in due annualità (nel 2008 e nel 2010) redditi superiori a 200 mila euro, mentre solo 2009 ha dichiarato un reddito di circa 28 mila euro. Ebbene, questo soggetto è stato accertato per l’anno 2009 con l’accusa di aver assunto un atteggiamento antieconomico, in forza della circostanza che il suo reddito è risultato
inferiore a quello dei dipendenti. L’altra ipotesi è quella di un notaio in
perdita in un’annualità, reo di aver comunque mantenuto la propria struttura lavorativa pure in presenza del ridimensionamento (solo in un anno), degli atti lavorati.
Orbene, in un periodo di crisi sono diversi i professionisti ad avere “
strutture” ormai “pesanti” e che al contempo hanno avuto una drastica riduzione dei compensi. Citati i notai e gli ingegneri, è facile aggiungere tutti gli altri professionisti del mondo edile, in crisi conclamata. E per “spirito di appartenenza”, non posso non far riferimento ai commercialisti e consulenti la cui situazione non è piacevole, considerato che rispetto ai clienti in difficoltà spesso sono i primi a non essere pagati in quanto sia consapevoli del periodo attuale, sia “necessariamente” solidali con tanto di impegno morale a continuare l’assistenza.
Il problema che si pone è forte: non è possibile essere
penalizzati in termini di selezione e accertamento in forza di un concetto asettico quale l’antieconomicità, dovendo invece essere valutate con estrema attenzione le ragioni, sia
sociali che lavorative (rapporto duraturo con i dipendenti, specializzazione degli stessi, organizzazione ormai collaudata etc.), che conducono al mantenimento dell’assetto preesistente fintanto che sussiste la possibilità di “gestire” e “reggere” la situazione.  Non tralasciando la circostanza che proprio nel mondo professionale il concetto di antieconomicità sulla base dell’osservazione di poche annualità è fortemente condizionato dal
principio di cassa: ad esempio, nel caso riportato dell’ingegnere, lo stesso nel 2009 non ha ricevuto cospicui pagamenti da parte degli enti statali (ottenuti invece negli anni successivi), nei cui confronti ha però comunque mandato avanti i progetti sostenendo i costi relativi. La realtà è che proprio nel mondo professionale
non sussiste una stretta correlazione temporale tra costi e compensi, che ben possono manifestarsi a distanza di anni.
Ed infine si pongono due domande provocatorie, a cui finora l’Agenzia delle Entrate non ha mai dato risposta:
  1. se per caso è stata effettuata una variazione normativa nel mondo del lavoro, rappresentando la presunta antieconomicità una giusta causa di licenziamento (in realtà su questo sarebbe interessante interpellare il ministero del lavoro per avere un parere in merito);
  2. se, altrettanto per caso, è stata cancellata dal Tuir la possibilità di conseguire delle perdite. Ora è vero che il turbinio delle disposizioni fiscali è vasto, ma non sembra che una simile variazione sia stata concepita.
Vedremo cosa accadrà nel futuro, soprattutto sul fronte giurisprudenziale. La speranza ovviamente è che qualcosa possa cambiare, ma temo sia destinata a rimanere delusa.