Frodi carosello e deducibilità dei costi
di Luigi Ferrajoli
Con le recenti sentenze n. 13800 e n. 13806 del 18/6/2014 la Corte di Cassazione ha affrontato il tema della efficacia retroattiva “in bonam partem” della nuova formulazione dell’articolo 14, comma 4-bis, della L. 537/1993, ribadendo, sulla scorta di quanto affermato dallo stesso legislatore, l’applicabilità della norma anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore della novellata disposizione, ove più favorevole.
Le pronunce affrontano il tema della deducibilità dei costi da reato, alla luce della novella normativa che non ammette in deduzione i costi e le spese sostenute per l’acquisto di beni e prestazioni di servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo, con una formula più stringente rispetto all’originaria previsione che escludeva dalla deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività “qualificabili come reato“.
La questione affrontata dalla Cassazione nelle due sentenze concerne la ripresa a tassazione ai fini IVA per presunta illegittima detrazione d’imposta formulata ai danni di una Società di capitali, asseritamente coinvolta in una frode fiscale c.d. carosello in qualità di soggetto utilizzatore delle fatture passive emesse per operazioni considerate “soggettivamente” inesistenti – aventi ad oggetto la cessione di materiale informatico.
La Corte di Cassazione, rilevato che il quadro indiziario avrebbe potuto e dovuto insospettire un operatore diligente sulla qualità di cartiera della società contraente, giudica corretta la statuizione della CTR che esclude la buona fede della società contribuente in quanto consapevole del sistema di evasione fiscale.
Tuttavia, i giudici di legittimità non possono che affermare l’irrilevanza ai fini della deducibilità dei costi dell’accertamento della consapevolezza o meno della frode da parte della società cessionaria per applicabilità alla fattispecie controversa del “jus superveniens” e disporre la cassazione della sentenza impugnata con rinvio della causa alla Commissione tributaria regionale per la verifica dei costi che potranno ritenersi deducibili alla stregua della normativa sopravvenuta, rideterminando le eventuali imposte dirette dovute dalla società.
Il principio della Suprema Corte è chiaro: “ai soggetti coinvolti nelle “frodi carosello” non è più contestabile, alla luce della nuova norma, la deducibilità dei costi, in quanto i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente “al fine di commettere il reato” ma, salvo prova contraria, per essere commercializzati e venduti. Non è dunque più sufficiente il coinvolgimento od anche la consapevolezza dell’acquirente in operazioni che siano fatturate da soggetto diverso dall’effettivo fornitore perché non siano deducibili, ai fini delle imposte sui redditi, i costi relativi alle predette operazioni, in quanto la precedente condizione normativa di indeducibilità fondata sul mero “collegamento” tra i costi portati in deduzione e la condotta lecita, è stato sostituita dalla necessità della prova che i costi si riferiscano all’acquisto di beni o servizi che vengono direttamente utilizzati come “mezzo” o “strumento” per commettere un “delitto doloso””.
La sentenza n. 13806/2014 si sofferma anche sull‘aspetto probatorio delle operazioni in contesto, ribadendo l’onore di prova contraria che incombe sul contribuente di essersi trovato nella situazione di oggettiva inconoscibilità della frode, stabilendo che: “Occorre tuttavia precisare che il soggetto – cessionario, ove tenuto a fornire la prova contraria, non può ritenersi vincolato esclusivamente alla dimostrazione della effettività della operazione, bene potendo verificarsi l’ipotesi in cui lo stesso abbia svolto con scrupolosa diligenza le trattative e concluso l’accordo negoziale conformemente alla condotta richiesta ad un accorto operatore del settore, rimanendo non solo del tutto estraneo alla frode cui ha partecipato con terzi il (fittizio) soggetto-cedente, ma addirittura ignaro della esistenza della stessa frode. Correttamente è stato rilevato, infatti, come illeciti tributari commessi da altri soggetti non possano ridondare – traducendosi in una sorta di responsabilità oggettiva – a sfavore del contribuente in “buona fede”, negandogli l’esercizio del diritto alla detrazione IVA versata in rivalsa, ed è stato, pertanto, opportunamente specificato che il soggetto-cessionario, qualora non sia in grado di dimostrare, con riferimento al cedente, che la operazione fatturata è “reale” e non fittizia, può egualmente fornire idonea prova contraria, dimostrando che dagli elementi conoscitivi acquisiti nel corso delle trattative e della operazione condotta con il soggetto-cedente non erano emerse circostanze o anomalie tali da indurre a sospetto e quindi escludere l’incolpevole affidamento sulla regolarità fiscale della operazione“.