Studi di settore, occhio all’attendibilità complessiva del contribuente
di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365
Giovanni Valcarenghi nell’articolo del 16 luglio ha posto la fatidica domanda: a cosa servono gli studi di settore?
Evitiamo risposte di “pancia” e si rinvia all’articolo, che ben evidenzia gli aspetti controversi del software Gerico, le relative bizzarre implicazioni e soprattutto il salto nel vuoto in ottica futura, dove magari una volta convocati per la non congruità o non normalità dello studio si incapperà nei vuoti di memoria di qualche zelante funzionario rispetto ai chiarimenti forniti a livello centrale. Fatto è che gli studi di settore devono affrontarsi ed è pacifico che il mondo dei consulenti in questi giorni si ritrova nelle “forche caudine” della “sistematizzazione” delle informazioni e dell’inserimento delle stesse nel software di calcolo, sperando di raggiungere l’agognato traguardo della congruità e della coerenza.
E’ sempre utile rammentare gli elementi portanti delle “famose” sentenze della Cassazione a Sezioni Unite del dicembre 2009 nn. 26635 e seguenti, secondo cui:
-
Lo studio di settore è una
presunzione semplice, non in grado di “reggere” autonomamente un accertamento fiscale; -
Tale modalità di controllo deve
obbligatoriamente transitare per il contraddittorio con il contribuente; -
Il contribuente può anche decidere di non partecipare al contraddittorio. In tali termini si esprime la sentenza n. 26635 del 2009: “
L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standards al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente (…)”; -
In caso di mancata partecipazione al contraddittorio il fisco è autorizzato ad emettere l’accertamento, mentre il contribuente, “
assume le conseguenze del suo comportamento”, potendosi comunque difendersi in fase contenziosa; -
Al giudice tributario il compito di valutare gli elementi del caso e decidere di conseguenza.
Tali assunti sono stati ripetutamente confermati dalla Corte di Cassazione, di cui si richiama la recente sentenza, n. 8626 depositata l’11 aprile 2014, che può dirsi riassuntiva sia dell’iter da seguirsi da parte dell’Amministrazione Finanziaria, sia delle modalità difensive da adottare da parte del contribuente. In particolare, la sentenza in argomento è importante in quanto evidenzia che in fase difensiva non sono attendibili semplici riferimenti generici e non contestualizzati (come il richiamo all’esercizio sia di attività all’ingrosso che al dettaglio, la forte concorrenza del settore, la presenza di perdite per il calo fisiologico dei prodotti., etc), essendo invece necessari elementi fattuali e concreti, atti ad evidenziare le ragioni dello scostamento registrato.
Tradotto in termini pratici, è evidente che lo studio di settore non deve più “spaventare” nessuno, ma è altrettanto palese che se Gerico dovesse evidenziare la non congruità non deve venire in mente di “forzare” le informazioni, essendo invece fondamentale interrogarsi sulle ragioni del risultato reddituale raggiunto.
Ed in tale direzione è oltremodo interessante la sentenza n. 301/05/14, depositata il 24 giugno 2014 ed emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Arezzo, sezione V, che seppur negativa nel caso specifico per il contribuente, consente di comprendere cosa realmente serve per restare indifferenti allo studio di settore.
Nell’ordine, l’organo giudicante elenca gli elementi che consentono di ritenere attendibile il risultato di Gerico nel caso specifico, atteso che:
- gli scostamenti registrati sono rilevanti in più periodi d’imposta;
- allo stesso tempo, tutti gli indici risultano non coerenti;
- la gestione dell’attività è palesemente antieconomica, con risultati scarni in più periodi d’imposta;
- i prezzi di vendita praticati sono notevolmente e ingiustificatamente inferiori ai valori di mercato registrati dall’OMI.
In definitiva, il successo di Gerico fonda altrove. Ed è su questo che è necessario concentrare l’attenzione, non sulla congruità. In primo luogo la coerenza nello svolgimento dell’attività e la relativa spiegazione logica. È evidente, ad esempio, come non sia accettabile un’anomalia collegata alla presenza di costi di ammortamento e alla contemporanea assenza di beni ammortizzabili.
Dopo di che l’analisi degli elementi fondamentali relativi allo svolgimento dell’attività. Nel caso si è trattato del confronto dei prezzi praticati con le stime OMI. Orbene, è pur vero che i dati OMI non sono delle presunzioni accertative, ma è altrettanto vero che è necessario documentare in maniera compiuta le motivazioni che hanno condotto a prezzi di vendita inferiori (ad esempio illustrando, mediante perizie di stima, le condizioni degli immobili, l’ubicazione, l’utilizzo di materiali di risulta, la necessità di trovare finanziamenti, etc).
Infine, l’attendibilità complessiva dei risultati conseguiti. La presunzione di antieconomicità e le eventuali segnalazioni da redditometro devono assurgere ad un ruolo di primo piano, da vagliare in via prioritaria rispetto ad ogni ulteriore elemento dichiarativo. I risultati, pur se negativi, devono avere delle spiegazioni razionali e soprattutto dei comportamenti imprenditoriali adeguati. Avere reiterati risultati negativi, senza “reazioni” e soprattutto senza spiegazioni sulle modalità con cui si provvede alle occorrenze della vita quotidiana (si pensi ai risultati negativi della società in più anni con assenza di redditi dei soci persone fisiche), non è affatto credibile.
Questi i veri problemi da risolvere rispetto agli studi di settore, che a questo punto manifesteranno in toto la loro inutilità. Altrimenti, nonostante il condivisibile “grido di dolore” presente nel pezzo di Valcarenghi, avremo ancora sentenze come quelle dianzi commentate.