Profili fiscali nella cessione del credito del professionista
di Luca Caramaschi
Vi sono questioni in ambito tributario che, ancorché ricorrenti, generano a distanza di anni problemi di tipo applicativo. Una di queste è la cessione del credito non ancora fatturato da parte del professionista.
Come è noto il principio ispiratore nella determinazione del reddito di lavoro autonomo è la “cassa”, ovvero la rilevanza reddituale dei compenti positivi e negativi di reddito al momento dell’incasso o del pagamento (ciò è quanto si desume dalla lettura del primo comma dell’art.54 del TUIR laddove parla di compensi “percepiti” e spese “sostenute”). Anche ai fini Iva, in un certo qual modo, è la “cassa” ad individuare il cosiddetto momento impositivo: trattandosi di prestazioni di servizi, infatti, l’art. 6 co.3 del D.P.R. 633/1972 precisa che le stesse si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo (sempre che, ovviamente, non venga precedentemente emessa in via spontanea la fattura).
Nell’ambito del reddito di lavoro autonomo, poi, assume rilevanza anche un’altra questione: l’applicazione della ritenuta a titolo di acconto prevista dall’art. 25 del D.P.R. 600/1973, che i clienti del professionista devono operare all’atto del “pagamento”.
Come si vede, quindi, è solo al momento dell’incasso che nascono in capo al professionista (rilevanza reddituale e obbligo di fatturazione) e al suo cliente (obbligo di operare la ritenuta) gli obblighi fiscali in relazione alla prestazione di lavoro autonomo resa dal professionista medesimo.
Ma veniamo al caso in commento: un professionista, che a fronte di una prestazione resa ad un’impresa e documentata da parcella pro forma, in seguito a problemi di carattere finanziario ed economico della stessa, decide di cedere il predetto credito “pro soluto” a soggetti terzi ad un valore evidentemente inferiore a quello effettivo.
Le domande che si pongono sono le seguenti: cosa deve fare il professionista al momento dell’incasso del corrispettivo di cessione del credito? Deve fatturare? Deve, e se sì quando, far concorrere tale provento alla formazione del reddito professionale? Va applicata, e se sì da chi, la ritenuta a titolo di acconto prevista dall’art.25 del D.P.R. 600/1973?
Tutte questioni, apparentemente banali, ma complicate dal fatto che in questo caso il soggetto “pagatore” (cioè il cessionario del credito) è terzo rispetto a quello nei cui confronti la prestazione professionale è stata eseguita.
Ai fini delle imposte sul reddito la questione appare pacifica.
Il comma 2 dell’art. 6 del TUIR, infatti, recita testualmente che “i proventi conseguiti in sostituzione dei redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti“. Ne deriva, pertanto, che quanto percepito dal professionista in conseguenza della cessione del credito conserverà sempre la natura di compenso di lavoro autonomo e, perciò, dovrà essere da questi dichiarato come tale nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta dell’avvenuto introito.
Restando in ambito reddituale ci si chiede ora se, dopo la cessione del credito, sia da considerare “sostituto d’imposta” il debitore originario oppure il terzo cessionario. La risposta può essere trovata analizzando l’art. 25 del citato D.P.R. 600/1973 che in estrema semplificazione dispone che se un ente o una società corrisponde ad un soggetto un compenso comunque denominato per prestazioni di lavoro autonomo, ancorché rese nei confronti di terzi, deve operare, all’atto del pagamento, una determinata ritenuta a titolo di acconto.
Ora, nel caso in commento sembra non ci possano essere dubbi sul fatto che:
- è il terzo cessionario a corrispondere le somme al lavoratore autonomo;
- ancorché quanto erogato abbia un titolo differente, esso è pur sempre un compenso che mantiene l’originaria caratteristica di reddito di lavoro autonomo;
- il pagamento è a fronte di una prestazione resa a favore di un terzo (la società cliente del professionista).
In base alla predetta soluzione, confermata anche dalla Cassazione sez. civile, sentenza n.9332 del 25 ottobre 1996, il cessionario del credito dovrà operare la ritenuta d’acconto su quanto effettivamente corrisposto ed inviare al lavoratore autonomo la certificazione dei compensi assoggettati alla ritenuta (vale la pena rilevare che in caso di cessionario “privato”, in quanto impossibilitato a rivestire la qualifica di sostituto d’imposta, lo stesso non deve operare alcuna ritenuta d’acconto). La società debitrice, invece, a seguito della notificazione della cessione, in contabilità sostituirà il suo debito verso il lavoratore autonomo con quello nei confronti del cessionario. Alla scadenza pagherà a quest’ultimo l’intero importo originariamente dovuto, senza incombenze fiscali.
Ai fini Iva le cose si complicano. Posto che in base al citato art. 6 del decreto Iva l’obbligo di emettere fattura, salvo comportamenti volontari, sorge solo all’atto del pagamento del corrispettivo, non è irrilevante capire se somme incassate dal professionista in occasione della cessione del credito siano fiscalmente assimilabili al vero e proprio pagamento da parte del debitore. Sul tema della rilevanza o meno della cessione del credito in ambito Iva, si è recentemente espressa in maniera decisiva l’agenzia delle entrate con la circolare n.1/E del 15.02.2013, ancorché in relazione a fattispecie parzialmente differente rispetto a quella in commento e cioè alle operazioni ad esigibilità differita tipiche del cosiddetto regime Iva per cassa disciplinato dall’art. 32-bis del D.L. 83/2012 (qui, infatti, la prestazione, al pari delle prestazioni rese nei confronti di enti pubblici, si considera già “effettuata” ai fini Iva, mentre ciò che risulta sospesa è la sola esigibilità dell’imposta).
Tuttavia, a favore dell’assimilabilità delle due fattispecie si era già espressa in passato la risoluzione della DRE dell’Emilia Romagna n. 74680 del 2.12.1999 che afferma “Si è infatti dell’idea che l’alternativa circa la configurabilità o meno degli effetti derivanti dalla cessione del credito, quali effetti equivalenti a quelli derivanti dal tipico “pagamento del corrispettivo”, non si pone soltanto con riguardo alle operazioni effettuate nei confronti dello Stato e degli altri Enti Pubblici individuati nell’ormai più volte citato art. 6, quinto comma, del D.P.R. n. 633/72, ma (per restare alle fattispecie di maggior frequenza), si ritiene che la stessa assuma consistenza anche in relazione a tutte le operazioni quantificabili in termini di prestazioni di servizi, per le quali il pagamento del corrispettivo costituisce ordinario criterio di determinazione del momento impositivo”.
Ecco che le conclusioni della citata C.M. 1/E/13 possono ben adattarsi al caso in commento. In tale documento l’Agenzia ritiene che la cessione del credito, sia essa pro-solvendo o pro-soluto, non realizzi il presupposto dell’esigibilità dell’imposta. Conseguentemente l’incasso del prezzo di cessione del credito non è assimilabile al pagamento del corrispettivo delle operazioni originarie e il professionista dovrà corrispondere la relativa imposta solamente nel momento in cui il debitore ceduto pagherà effettivamente il corrispettivo al cessionario del credito. Il professionista che trasferisce il credito avrà, pertanto, l’onere di informarsi circa l’avvenuto pagamento del credito ceduto, poiché è in tale momento che l’IVA relativa all’operazione originaria diventa esigibile e, quindi, deve essere fatturata nonché inclusa nella relativa liquidazione di periodo.
Ancorché sia stata finalmente fatta chiarezza su una questione che in passato aveva generato qualche dubbio, non si può non rilevare come una siffatta soluzione determini enormi complicazioni operative che posso parzialmente mitigarsi solo consigliando di inserire nell’atto di cessione del credito una esplicita previsione per la quale il cessionario del credito si obbliga con tempi e modalità definite a comunicare al professionista cedente l’avvenuto incasso da parte del debitore originario.