La ristretta base sociale non è sufficiente per la presunzione di distribuzione di utili
di Massimo Conigliaro
La ristretta base societaria ed i vincoli di parentela non sono elementi sufficienti a legittimare la presunzione della distribuzione ai soci del maggior reddito accertato in capo alla società di capitali. Occorrono altri riscontri gravi, precisi e concordanti, a supporto della presunzione semplice di distribuzione degli utili extra contabili. E’ questo il principio ribadito dalla Commissione Tributaria Regionale di Firenze, Sez. XXXV, con la sentenza n. 61/35/13.
Secondo i giudici fiorentini, l’amministrazione finanziaria ha l’onere di provare la reale percezione, pro quota da parte dei soci, del maggior reddito societario, con ulteriori circostanze quali l’indagine presso clienti e fornitori dell’impresa accertata, la verifica del tenore di vita, l’effettiva capacità contributiva, la documentazione concernente l’incasso, e così via.
L’obbligazione tributaria a carico dei soci non può prescindere – si legge nella sentenza – dalla prova certa anche del concreto ed effettivo trasferimento diretto o indiretto di determinati utili extracontabili o occulti dalla società ai soci. Stante il fondamentale principio di rilievo costituzionale che àncora l’obbligazione tributaria all’accertamento dell’effettiva capacità contributiva dei singoli soggetti, è pur sempre necessario, infatti, che l’imposizione tributaria si fondi su circostanze concrete e non già astratte o meramente ipotetiche e comunque non soltanto sull’unico elemento di presunzione addotto dall’ufficio, vale a dire la ristrettezza della base societaria. L’efficacia probatoria della ristrettezza della base societaria si presenta dunque piuttosto limitata e di per sé insufficiente a sorreggere la pretesa tributaria. Per assurgere ad idonea prova presuntiva della distribuzione di utili non denunciati da parte della società, occorre dunque che essa sia supportata da ulteriori elementi indiziari che, in ogni caso, dovranno superare l’esame della precisione, concordanza e gravità, secondo quanto prescritto dal combinato disposto di cui agli artt. 2727 e 2729 cod. civ.
La Commissione Tributaria Regionale di Firenze, peraltro, ritiene che le norme di legge sull’attribuzione degli utili ai soci di una società di capitali debbano prevalere rispetto a diversi meccanismi di automatica imputazione che possono rischiare di tassare un reddito mai entrato nel patrimonio del contribuente, in violazione dell’art.53 della Costituzione. In pratica non è ammesso l’automatismo utili in nero della società a ristretta base = distribuzione ai soci. Inoltre, non è detto che le somme, laddove veramente confluite ai soci, siano state incassate dagli stessi in proporzione alla loro partecipazione agli utili: non tutti i soci hanno potere di gestire e, dunque, non è ragionevole pensare che tutti abbiano ottenuto le somme medesime. Non è infrequente, inoltre, che soci legati (o meno) da rapporti di parentela non vadano d’accordo: ben potrebbe verificarsi il caso dell’amministratore/socio che tenga per sé l’eventuale utile prodotto in nero.
La ristretta base azionaria può giustificare piuttosto ulteriori indagini per verificare l’esistenza di somme non risultanti dalla contabilità, ma non può sostituirsi completamente ad essa rendendola superflua, essendo ovvio che ogni risultanza al riguardo, per produrre gli effetti voluti, deve essere suffragata da attendibili elementi di prova, in mancanza dei quali l’affermazione che i maggiori utili accertati a carico della società sono stati ripartiti fra i soci “non può essere considerata se non alla stregua di una mera illazione” (così la Commissione Tributaria Centrale Sezione VII già con la decisione n. 7027/90).
La ristretta base azionaria non fornisce di per sé la prova di distribuzione di utili extrabilancio, ma assume valore presuntivo circa la percezione di supposti maggiori utili soltanto in concorso con altri elementi idonei a documentare maggiori percezioni ricollegabili, anche sotto il profilo temporale, a tale fonte reddituale. E questi ulteriori elementi devono essere puntualmente documentati dall’ufficio, che non può limitarsi ad accertare, in capo a ciascun socio, un maggior reddito come conseguenza dell’avviso di accertamento notificato alla società. La giurisprudenza di merito ha chiarito che “secondo una corretta applicazione della regola presuntiva … il fatto noto dal quale dedurre il fatto ignorato non può essere la circostanza della ristretta base azionaria, bensì la avvenuta percezione di redditi non dichiarati da parte della società..” (ex pluribus Comm. Tributaria Provinciale Salerno sentenza n. 65/1995).
Occorre infine sottolineare che per avere ricadute sui soci, l’avviso di accertamento nei confronti della società (che accerta maggiori utili) deve essere divenuto definitivo, altrimenti il fatto ignoto – e cioè la supposta distribuzione di utili in nero ai soci – non poggia su un fatto noto, come stabilito dalla legge, bensì su un fatto anch’esso presunto, cioè un maggior utile individuato presuntivamente, non ancora definitivamente determinato. Allorquando l’avviso di accertamento in capo alla società viene impugnato e risulti essere ancora pendente, il relativo processo tributario non può essere sospeso ex articolo 295 c.p.c. in attesa della definizione della controversia in capo alla società; ciò porta a dover preventivamente verificare se l’atto in questione è divenuto definitivo per mancata impugnazione o per rigetto del ricorso del contribuente con sentenza non più impugnabile: solo in tale caso, acquistando il contenuto dell’atto impositivo in capo alla società il carattere della certezza, potrà eventualmente riverberare effetti nei confronti dei soci, previa attenta valutazione della prova dell’effettiva distribuzione in capo a ciascuno di essi.