Imponibili le vendite del collezionista?
di Luigi Scappini
La cessione di una collezione d’arte da parte di un soggetto privato configura un reddito tassabile?
E se la risposta è positiva, esso va ascritto tra i redditi diversi o quelli di impresa?
Se è fuor di dubbio che la cessione isolata, da parte di un persona fisica, di un bene qualificabile come antichità non possa essere generatrice di un reddito imponibile, così non è quando le cessioni si susseguono nel tempo e/o come spesso accade, le stesse siano demandate a professionisti del settore quali le case d’aste.
Non di rado, infatti, soggetti che, in un più o meno ampio lasso temporale, hanno proceduto all’acquisto, ai fini di puro collezionismo, di un numero ingente di opere d’arte, decidono di procedere alla loro cessione.
Per poter rispondere correttamente è necessario verificare, dapprima se l’attività sia inquadrabile nel contesto delineato dall’articolo 55 del Tuir e poi, in second’ordine, se la risposta dovesse essere negativa, contestualizzare la cessione delle opere d’arte nella variegata fattispecie dei redditi diversi, infatti, si ricorda come si considerino come tali i redditi che “non costituiscono redditi di capitali ovvero se non sono conseguiti nell’esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente”.
Una volta che il reddito non dovesse essere collocabile né tra quelli di impresa, né tra quelli diversi, si dovrebbe concludere per la non imponibilità dello stesso.
Ai sensi dell’articolo 55 Tuir produce un reddito di impresa l’esercizio di una delle attività contemplate all’articolo 2195 codice civile esercitata in modo abituale, anche se non esclusiva e anche se non organizzata sotto forma di impresa.
Inoltre, per quanto attiene le prestazioni di servizio non ricomprese nell’elenco di cui all’articolo 2195 codice civile, indicate all’articolo 55, comma 2, lettera a) del Tuir, esse, per generare reddito d’impresa devono essere organizzate in forma di impresa.
Sul presupposto che la definizione offerta dal Legislatore non è così tranchant, sicuramente utile è ripercorre l’indirizzo giurisprudenziale che si è andato consolidando nel tempo.
Per quanto attiene la giurisprudenza, significative, seppur datate, sono le sentenze n.3690 del 9 dicembre 1985 e n. 8193 del 26 febbraio 1997 da cui si evince come requisito fondamentale affinché l’esercizio un’attività commerciale determini un reddito di impresa non è tanto l’organizzazione (che potrebbe anche non sussistere), quanto la professionalità abituale: del resto, in assenza di quest’ultima, si ricadrebbe automaticamente nei redditi diversi di cui all’articolo 67, comma 1, lettera i), che si applica per le attività commerciali non esercitate abitualmente.
Quindi, quello che bisogna indagare è il significato di professionalità che viene individuato, con la sentenza n. 3690/85 nella coesistenza di abitualità, stabilità e sistematicità, requisiti che presuppongono una presenza ininterrotta, ben potendo riscontrarsi in quelle attività che sono per loro definizione stagionali.
Ma, ai fini che qui interessano, maggior significato riveste la successiva sentenza n. 8193/97 ove i supremi giudici affermano che “la qualifica di imprenditore va attribuita anche a chi utilizzi e coordini un proprio capitale per fini produttivi”, circostanza che non si ritiene riscontrabile nel collezionista di opere d’arte il quale, a ben vedere, si pone quale scopo ultimo quello di incrementare la propria collezione e quindi il godimento della stessa.
Interessante è anche la sentenza di merito della CTP di Pisa, la n. 33 del 23 ottobre 2003, con cui è stato affrontato il caso di un avvocato a cui veniva contestato il commercio di auto d’epoca con conseguente accertamento di un reddito diverso ai sensi dell’articolo 67, comma 1, lettera i) del Tuir.
Partendo dal presupposto che le attività che generano redditi diversi ex lettera i) sono le stesse che producono reddito di impresa ai sensi dell’articolo 55 del Tuir, a parere dei giudici, le attività per essere tassabili devono essere individuate in base ad elementi oggettivi quali una combinazione di atti consistenti sia nell’organizzazione di fattori produttivi capitale e/o lavoro che in una sequenza di acquisti e rivendite che si manifesti in un arco di tempo definito e definibile.
Anche la CTR di Venezia, con la sentenza n.118 del 9 novembre 2000 ha avuto modo di analizzare un caso similare affermando come non sia riscontrabile la figura dell’imprenditore laddove un soggetto svolga operazioni speculative isolate in assenza di operazioni preordinate alla successiva rivendita.
Da ultimo, si segnala come l’Agenzia delle Entrate, con la R.M. n.5/E del 24 gennaio 2001 n. 5, abbia escluso la natura commerciale dei proventi che un’associazione senza scopo di lucro consegue dalla vendita all’asta di opere ricevute a titolo di liberalità. Ad avviso dell’Amministrazione finanziaria, la vendita non costituisce attività commerciale (e, come tale, non è imponibile), dal momento che in essa non è rinvenibile “l’elemento dell’intermediazione nello scambio dei beni ma una semplice operazione di dismissione patrimoniale”.
In ogni caso, occorre che “la vendita all’asta non richieda l’impiego di mezzi organizzati professionalmente né nessuna rilevanza autonoma nell’ambito di un’iniziativa volta a liquidare beni acquisiti nella sfera della attività istituzionale propria dell’associazione”.