4 Aprile 2014

Omessi versamenti Iva per crisi di liquidità: condannato il contribuente che non dimostra la forza maggiore

di Massimo Conigliaro
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La sentenza di qualche giorno fa della Sezione Penale della Corte di Cassazione sul tema degli omessi versamenti dell’Iva dichiarata (n. 14953/14, depositata il 1° aprile 2014) ci consente di fare il punto sulla situazione a livello giurisprudenziale su questa delicata tematica, con indicazioni che appaiono spesso confliggenti fra loro.

Nel caso affrontato, la Cassazione ha confermato la sentenza della corte d’appello di Brescia che aveva condannato a 4 mesi di reclusione un imprenditore dal reato di omesso versamento di IVA previsto dall’art. 10-ter del D.Lgs. 74/2000 che non aveva potuto far fronte al pagamento delle somme dovute all’Erario perché si trovava in crisi di liquidità per debiti pregressi.

La Suprema Corte – in una pronuncia che da un lato appare rigorosa, ma dall’altro offre spiragli di difesa – ha stigmatizzato il mancato assolvimento dell’onere della prova da parte del contribuente, che non ha saputo offrire alcuna giustificazione convincente in merito alla propria condizione economica. Circostanza che, di converso, in presenza di eventi eccezionali e di rilevante dimensione può ritenersi idonea a escludere la punibilità o quantomeno il dolo del reato di cui all’articolo 10-ter D.Lgs. 74/2000. La crisi di liquidità – infatti – rappresenta un evento possibile, concretizzando lo stesso un rischio inerente all’attività di impresa, cui occorre far fronte tempestivamente con opportuni interventi sul “flusso di cassa” dell’azienda, quali:

a) i tempestivi e frazionati accantonamenti;

b) il ricorso all’acquisizione di ulteriori somme erogate da istituti bancari e/o finanziari e altri.

Il tema degli omessi versamenti Iva per crisi di liquidità è al centro dell’attenzione di molti addetti ai lavori. La giurisprudenza, con alterne pronunce, ha aperto più di uno spiraglio sia in ambito penale che in quello tributario: una crisi di liquidità adeguatamente documentata ovvero cause di forza maggiore realmente esistenti possono costituire un’esimente da valorizzare a difesa del contribuente.

E’ il caso trattato dal Tribunale di Firenze con la sentenza del 10 agosto 2012. In seguito all’opposizione al decreto penale di condanna, l’imputato dichiarava che al momento in cui erano avvenuti i fatti la sua ditta, che stava svolgendo un lavoro importante, si era trovata in estrema difficoltà economica perché non aveva incassato quanto nel frattempo maturato. Quando gli era arrivata la raccomandata dell’Agenzia delle Entrate con la quale gli si chiedeva di pagare l’Iva, non era stato in grado di ottemperare sul momento, ma aveva poi ottenuto una rateizzazione con l’Agenzia delle Entrate, che stava onorando.

Sulla stessa lunghezza d’onda è la pronuncia del Tribunale di Novara del 21 marzo 2013, nella quale il consulente fiscale, in sede di testimonianza ha chiarito che la crisi di liquidità era dipesa non da atti di mala gestio posti in essere dagli amministratori, quanto piuttosto dalle condizioni contrattuali in base alle quali la società aveva iniziato la propria attività. Alla situazione di crisi gli amministratori avevano tentato di porre rimedio, attingendo pure al patrimonio personale. A ciò si è aggiunto un piano di rientro concordato con Equitalia per i contributi Inps ed una richiesta di dilazione all’Agenzia delle Entrate (quantunque poi respinta).

Di diverso tenore è invece la Corte di Cassazione, Sez. III Penale n. 2614/2014, che ha stabilito che ogni qualvolta che il soggetto di imposta riscuote l’Iva, deve tenerla accantonata per l’erario, organizzando le risorse disponibili in modo tale da poter adempiere all’obbligazione tributaria. Va precisato che, con l’introduzione della norma penale di cui all’articolo 10 ter del D.Lgs. n. 74 del 2000, l’esigenza di organizzazione di cui si è detto deve essere strutturata su scala annuale. Dimentica, in questo caso, la Cassazione che non sempre si incassano l’iva e l’imponibile fatturati nei tempi concordati, con la conseguenza che si potrebbe pertanto incorrere nella violazione in parola senza avere nemmeno percepito le somme.

La Cassazione (n. 5467/2014) ha evidenziato che la situazione di colui che non versa l’imposta si risolve, di regola, in una condotta, cosciente e volontaria, la quale, in modo progressivo, si articola, in un primo momento, con il mancato accantonamento delle somme trattenute; successivamente con l’omesso versamento mensile secondo le scadenze previste dalla normativa tributaria; ed infine con la prosecuzione della condotta omissiva fino al termine ultimo fissato dalla norma penale.

Le precedenti considerazioni non escludono ovviamente che, in astratto, siano possibili casi, il cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito e come tale insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, nei quali possa invocarsi l’assenza del dolo o l’assoluta impossibilità di adempiere l’obbligazione tributaria. E’ tuttavia necessario che siano assolti gli oneri di allegazione che, per quanto attiene alla crisi di liquidità, dovranno investire non solo l’aspetto circa la non imputabilità al sostituto di imposta della crisi economica, che improvvisamente avrebbe investito l’azienda, ma anche che detta crisi non possa essere stata adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto. Occorre cioè la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili.

A distanza di tre giorni dalla pronuncia appena evidenziata, la Corte di Cassazione ha espresso un principio diverso (Sez. III Sent. n. 5905 del 7 febbraio 2014) evidenziando che, in casi concreti, all’elemento oggettivo del reato può non corrispondere l’elemento soggettivo della coscienza e volontà di omissione dei versamenti, non essendosi verificata alcuna scelta inidonea a “non far debitamente fronte” agli obblighi di legge, cioè – a prescindere dalla sussistenza o meno, quindi, di una scriminante e rimanendo sul piano strettamente soggettivo – non risultando dimostrata una consapevole volontà criminosa in chi ha omesso i versamenti laddove, nel tempo prodromico al rilascio suddetto, la sua condotta gestoria non ha rappresentato una scelta consapevole nel senso dell’astensione da un adeguato piano di accantonamento organizzativo che consentisse poi l’adempimento dell’obbligo divenuto penalmente rilavante. Mentre il debito tributario è collegato con quello della erogazione degli stipendi ai sostituiti (per cui quando il sostituto d’imposta effettua le erogazioni insorge a suo carico “l’obbligo di accantonare le somme dovute all’Erario” per poter adempiere l’obbligazione tributaria), “l’introduzione della norma penale, stabilendo nuove condizioni e un nuovo termine per la propria applicazione, estende evidentemente la detta esigenza di organizzazione su scala annuale. Non può, quindi, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta…di non far debitamente fronte alla esigenza predetta”. Premesso, allora, che una condotta di mancato accantonamento mese per mese al momento della erogazione degli stipendi ai dipendenti non è già di per sè penalmente rilevante, poichè l’organizzazione previdente del datore di lavoro deve configurarsi “su scala annuale“, ovvero più ampia ma anche più elastica, come il notorio insegna essere proprio della gestione a medio termine di una impresa, quel che le Sezioni Unite prospettano – sottolineandone appunto la necessità di adeguatamente dimostrarlo – è l’eventualità, rilevante ai fini di escludere la colpevolezza, che sia intervenuta una crisi di liquidità al momento della scadenza del termine lungo, crisi non derivante dalla scelta del datore di lavoro-sostituto d’imposta “di non far debitamente fronte” al suo obbligo organizzativo.

Solo la cancellazione del reato di omesso versamento, prevista dalla delega fiscale, sembra quindi poter risolvere la vexata quaestio anche perché, volendo valorizzare l’apertura di cui si diceva nella sentenza del 1° aprile, non è ben chiaro quali possano essere gli “eventi eccezionali” che evitano la responsabilità penale cui fa riferimento la pronuncia.