Per le esportazioni “franco fabbrica” il termine di 90 giorni non è perentorio
di Marco Peirolo
Con la circolare Assonime n. 10 del 17 marzo 2014 viene esaminato l’orientamento espresso dalla Corte di giustizia nella causa C-563/12 del 19 dicembre 2013, riguardante la rilevanza da attribuire ad una previsione che, al pari di quella contenuta nell’art. 8, comma 1, lett. b), del D.P.R. n. 633/1972, subordini il regime di non imponibilità IVA delle cessioni all’esportazione a cura del cessionario non residente al rispetto di un termine entro il quale i beni devono essere fisicamente trasportati/spediti al di fuori del territorio doganale comunitario.
I giudici comunitari hanno affermato che una tale previsione è contraria alla normativa comunitaria se, dal mero superamento del termine (pari a 90 giorni in Italia), derivi l’imponibilità in via definitiva della cessione all’esportazione, cioè senza possibilità alcuna, per l’operatore nazionale, di provare l’avvenuta esportazione dei beni.
In altri termini, agli Stati membri è consentito prevedere un termine ragionevole per l’invio all’estero dei beni, che tenga conto delle usuali pratiche commerciali.
Questa possibilità, giustificata dalla duplice esigenza di assicurare la corretta e semplice applicazione delle esenzioni e di prevenire ogni possibile evasione, elusione e abuso (art. 131 della Direttiva n. 206/112/CE), deve tuttavia rispettare i princìpi generali dell’ordinamento comunitario, quali – in particolare – i princìpi di certezza del diritto, di proporzionalità e di tutela del legittimo affidamento.
Con un approccio sostanziale, è stato allora affermato che la normativa interna eccede gli obiettivi tutelati dal citato art. 131 della Direttiva n. 2006/112/CE se non consente di applicare il regime proprio delle cessioni all’esportazioni laddove l’operatore dimostri che i beni sono stati trasportati/spediti al di fuori della UE, sia pure oltre la scadenza del termine stabilito.
Dalla conclusione della Corte di giustizia si evince l’illegittimità della posizione espressa dalla Corte di Cassazione (sent. n.21956 del 27 ottobre 2010), in base alla quale il termine di 90 giorni è perentorio, sicché è irrilevante la circostanza che la violazione sia stata commessa dallo spedizioniere doganale e che i beni siano stati comunque esportati.
Nello stesso senso sembrerebbe porsi l’Amministrazione finanziaria, per lo meno nella circolare n. 50 del 12 giugno 2002 (§ 24.2), ove è stato precisato che “(i)l mancato adempimento degli obblighi da parte del cessionario impone al cedente di procedere alla regolarizzazione dell’operazione con applicazione dell’imposta e conseguente versamento dell’IVA dovuta”.
Tale indicazione trova, però, giustificazione nell’art. 7, comma 1, del DLgs. n. 471/1997, in base al quale al cedente è irrogata la sanzione amministrativa dal 50% al 100% dell’IVA “qualora il trasporto o la spedizione fuori del territorio dell’Unione europea non avvenga nel termine ivi prescritto”.
A rigori, in considerazione della pronuncia della Corre UE, la sanzione in esame è illegittima quando il cedente è in grado di provare l’avvenuta esportazione, sia pure oltre il termine di 90 giorni.
Di conseguenza, secondo Assonime, la sanzione dal 50 al 100% dell’imposta dovrebbe essere applicata nel solo caso in cui l’operazione è stata considerata non imponibile, ma i beni effettivamente non sono stati inviati all’estero, oppure non è stata fornita la prova di tale trasferimento.
Questa conclusione, peraltro, sembrerebbe desumersi dalla C.M. 25 gennaio 1999, n. 23/E (Cap. 2, § 3.1), secondo la quale il “cedente, ove non sia in grado di provare l’avvenuto trasporto o spedizione, è altresì soggetto al pagamento dell’imposta”.
Nell’attesa che l’Agenzia delle Entrate sciolga ogni dubbio al riguardo, l’Associazione osserva che il regime di non imponibilità proprio delle cessioni all’esportazione potrebbe applicarsi anche in alcuni casi in cui i beni non siano inviati al di fuori del territorio doganale comunitario, ma il cedente non sia responsabile della violazione. Sulla scia dell’orientamento espresso dalla Corte di giustizia in merito alle cessioni intracomunitarie, andrebbe infatti attribuita rilevanza alla buona fede del cedente, ai fini del riconoscimento della non imponibilità dell’operazione, in presenza di un comportamento fraudolento imputabile esclusivamente al cessionario (sent. 21 febbraio 2008, causa C-271/06).