Ricostruzione analitica induttiva, il campione di riferimento deve essere valido. La “coerenza” degli studi aiuta la difesa
di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365
La CTR Lazio, con la sentenza n. 748/01/13 dell’8 ottobre 2013, depositata il 19 dicembre 2013, affronta il delicato tema delle ricostruzioni analitiche induttive da parte dell’Amministrazione finanziaria fondate sull’analisi di un campione di fatture riferito all’attività svolta.
La decisione dei giudici laziali è stata favorevole al contribuente, riscontrando come l’accertamento non abbia consentito di individuare gli elementi presuntivi validi per la contestata evasione, laddove di contro la parte ha dimostrato sia la farraginosità dell’indagine svolta, fondata su un campione assolutamente non significativo e tale da non rendere credibili i risultati, sia la correttezza dei propri ricarichi praticati, avvalorati dalla “coerenza” degli studi di settore.
Nel merito della vicenda, l’Agenzia delle Entrate aveva provveduto a ricostruire l’attività di ristorazione del contribuente, determinando dei maggiori ricavi sulla base sia della farina impiegata nella produzione della pizza, sia dei piatti serviti e dei relativi prezzi praticati, analizzando però solo 84 fatture su circa 12 mila emesse.
L’analisi dei documenti di vendita “per campione” è solitamente riconosciuto valido dalla Giurisprudenza quando i prodotti venduti non sono particolarmente difformi e soprattutto in riferimento ad un “campione” che possa essere ritenuto ragionevolmente rappresentativo dell’attività svolta, in rapporto con le finalità dell’indagine che si intende svolgere.
indicazione di, al massimo, una decina di trattamenti (taglio, shampoo, piega, tinta, etc), le prestazioni fatturate sono sicuramente ripetitive e assimilabili tra loro e dunque ai fini dei prezzi di vendita praticati sarà sufficiente un campione non molto ampio. In una gioielleria, invece, data la vastità dei prodotti venduti, sarà necessario individuare un campione significativo che assorba la maggior parte del fatturato. Il tutto peraltro deve essere “tarato” con il controllo che intende effettuarsi.
Tornando all’esempio del parrucchiere, se l’obiettivo è di riscontrare i prezzi praticati, il “campione”, come detto, può essere contenuto: in tal caso è probabile che la ricostruzione delle prestazioni di vendita sarà effettuata analizzando i prodotti impiegati (ad esempio, in funzione del consumo di shampoo per ogni singolo lavaggio sarà possibile ricostruire il totale delle prestazioni realmente effettuate). Viceversa, se si intende verificare l’incidenza percentuale di ogni prestazione sul fatturato, magari al fine di una costruzione di una media ponderata, allora l’analisi dovrà necessariamente essere ampia (ad esempio, rappresentare almeno il 70% del fatturato).
Nel caso esaminato dai giudici laziali, l’analisi condotta da parte dell’Amministrazione finanziaria aveva diverse pecche, tali da non far configurare la presenza delle presunzioni gravi, precise e concordanti richieste per l’accertamento analitico-induttivo.
Questi gli elementi “vincenti” della difesa del contribuente:
- in sede di dichiarazione dei redditi, il contribuente è risultato “coerente” agli studi di settore. La coerenza, anche se in diversi casi sfugge, è l’elemento più importante degli studi di settore: infatti la congruità può essere sempre raggiunta, “manovrando” adeguatamente i dati da indicare nel software di calcolo; la “coerenza”, invece, evidenzia proprio la normalità dell’attività svolta e nel caso esaminato i giudici hanno rimarcato che tale elemento è indice della “equa percentuale di ricarico applicata”;
- il campione analizzato è assolutamente fuorviante e non significativo. L’indagine è stata condotta su appena 84 fatture rispetto alle circa 12 mila emesse ed ha addirittura condotto ad un parametro assurdo, quale il ribaltamento dell’incidenza della pizza venduta sul fatturato, che dal dato dichiarato dell’80% (peraltro riscontrato anche dai verificatori, che avevano sottolineato come il grosso dell’attività fosse fondato sulla vendita di pizza), è stato ridotto al 30%;
- la ricostruzione effettuata risente di svariati errori, soprattutto in riferimento agli sfridi e agli impieghi dei prodotti (ad esempio, gli accertatori non hanno considerato che parte della farina è destinata alla produzione di pasta fresca). Inoltre non sono state distinte le vendite tra pizza al tavolo e pizza da asporto e nemmeno è stato riconosciuto in maniera adeguata l’autoconsumo dei dipendenti.
La sentenza esaminata offre pertanto un importante spunto difensivo: in presenza di ricostruzioni fondati su “campioni” ritenuti significativi, deve “lavorarsi” sulla dimostrazione della non significatività del campione medesimo. La differenza delle prestazioni effettuate, i collegamenti tra le medesime (si pensi, rimanendo nel caso esaminato, al consumo di acqua e bibite, che potrebbe essere coerente con le presenze fatturate dall’azienda e assolutamente incoerente rispetto a quello presunto dal fisco), la “coerenza” degli studi di settore, la presenza di errori (sfridi, autoconsumi, cali di prodotto, etc), sono tutti elementi che possono essere uniti con lo stesso meccanismo delle “presunzioni gravi, precise e concordanti”, ma in un’ottica difensiva, ossia tesi a dimostrare che la ricostruzione più ragionevole possibile sulla base dei dati analizzati è quella che conduce ai risultati già dichiarati dal contribuente.