29 Gennaio 2014

Antieconomicità da difendere anche con contabilità perfetta

di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365
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L’antieconomicità rappresenta sempre di più l’arma utilizzata dall’amministrazione finanziaria per attaccare contribuenti che comunque presentano dati contabili formalmente corretti. Trattasi di un elemento probatorio derivato sia dalla irrazionalità delle scelte aziendali valutate nel complesso, sia eventualmente dall’irrazionalità dell’unico negozio giuridico rapportato ad altri aventi le medesime caratteristiche. Il ricorso all’antieconomicità è ormai codificato e ritenuto valido da vastissima e ripetuta giurisprudenza della Corte di Cassazione, da ultimo ribadito ancora in due occasioni. Certo, i riscontri che devono essere effettuati da parte dei verificatori non possono essere superficiali e limitarsi a pochi parametri numerici, dovendo invece raggiungere il grado di attendibilità necessario per il convincimento dell’organo giudicante: ma se tali elementi sono pregnanti, ecco che la difesa del contribuente diventa ardua, divenendo del tutto inutile invocare la correttezza formale dei dati contabili.

Due recenti sentenze della Corte di Cassazione, non certamente”clamorose” quanto alle motivazioni espresse, hanno ribadito in maniera chiara il concetto. La sentenza n.28190, udienza del 14 novembre 2013, emessa dalla sesta sezione Civile e depositata in Cancelleria in data 17 dicembre 2013, sottolinea come l’avviso di accertamento sia da ritenere idoneamente motivato nel momento in cui l’Ufficio ha illustrato gli indici di inattendibilità dei dati di alcune poste di bilancio ed ha altresì dimostrato che gli stessi sono idonei a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata. Di contro “(…) grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione all’eventuale antieconomicità delle stesse, senza che sia sufficiente invocare l’apparente regolarità delle annotazioni contabili (…)”. In altre e immediate parole è inutile asserire che i dati di bilancio sono corretti: è necessario spiegare anche la validità economica degli stessi. L’antieconomicità sui dati complessivi di bilancio deve essere osservata in un razionale lasso temporale. Se in ripetuti periodi d’imposta i risultati sono negativi, è lecito il dubbio, in chi controlla, che vi sia qualcosa che non quadri. Gli elementi più “evidenti” di tali patologie sono ad esempio il costante incremento delle rimanenze, collegato ad un crescente indebitamento verso le banche e accompagnato anche da un’esposizione dei soci (finanziamenti infruttiferi), non bilanciato da un’adeguata remunerazione. Se è vero che in determinate frangenti l’insieme degli indizi dapprima sinteticamente richiamati non sono significativi (si pensi ad una fase di start-up, dove potrebbero essere naturali simili dati), è altrettanto vero che in situazioni “standard” (magari un’azienda ormai sul mercato e senza palesi indici di crisi), i risultati precedenti sono a dir poco anomali e irrazionali sul piano della ordinaria condotta aziendale. Non dovendo dimenticare che altri elementi possono corroborare il convincimento prima degli organi ispettivi e poi dei medesimi giudici, come l’eventuale remunerazione dell’imprenditore inferiore a quella corrisposta ai dipendenti o ancora il quadro patrimoniale complessivo dell’imprenditore medesimo. Sempre la citata sentenza n. 28190 è chiara al riguardo nel momento in cui sottolinea: “(…) anche le vicende relative alla situazione patrimoniale del contribuente accadute in anni diversi da quello in contestazione possono costituire legittimi indici di capacità contributiva (…)”. In definitiva, il contribuente ha il delicato compito di dare razionalità economica ai propri comportamenti aziendali e ai relativi dati contabili. L’uscita dalla crisi, la ristrutturazione dell’azienda, il rilancio della medesima, possono essere chiari elementi di giustificazione di risultati a prima vista non attendibili (nulla vieta, ad esempio, che l’imprenditore rinunci ai propri compensi e immetta nuove risorse mantenendo “immune” il personale e la relativa remunerazione). L’importante è che poi seguano fatti concreti e finalizzati alla ripartenza (rimanendo in tema, sarebbe irrazionale poi un nuovo periodo con clamorosi incrementi delle rimanenze finali o di componenti negativi di cui potrebbe farsi a meno, dove invece sarebbe necessaria una politica di miglioramento dei risultati aziendali).

La sentenza n.457 depositata in cancelleria in data 13 gennaio 2014 (sempre della sesta sezione civile), illustra il caso classico della contestazione di antieconomicità di un singolo atto, nella specie la vendita di un immobile. Le conclusioni sono le medesime. Le contestazioni sono state mosse sulla base del raffronto del prezzo di vendita non solo con le stime OMI ma anche con ulteriori elementi quali la sommatoria della caparra, degli acconti vari e del mutuo contratto dagli acquirenti, oltre che in forza del riscontro di una media di ricarico davvero esigua e antieconomica. Come nel caso in precedenza illustrato, viene ribadita la legittimità dell’operato dell’amministrazione finanziaria, che ben può procedere a tali accertamenti anche in presenza di contabilità formalmente corretta. La morale è la medesima: è necessario “blindare”, nel caso del singolo negozio, le motivazioni che hanno condotto ad un determinato prezzo di vendita. Dunque, nell’ipotesi dell’immobile, prima della vendita ed in tempi non sospetti, sarà consigliabile effettuare una perizia sulle condizioni e caratteristiche dello stesso e del luogo in cui trovasi, sulle particolari difficoltà e situazioni di mercato, oltre che corroborare la scelta con ulteriori documenti, attestanti le valutazioni imprenditoriali svolte (ad esempio, la necessità di reperire liquidità per evitare più gravi ed onerose conseguenze nei confronti degli istituti di credito presso cui si è esposti).