17 Gennaio 2014

Reati tributari ed azione penale: il tema di prova

di Massimiliano TasiniPatrizia Pellegrini
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Il potere di accertamento dell’Amministrazione Finanziaria si dota sempre più spesso, per espressa previsione normativa, dello strumento presuntivo, in forza del quale l’onus probandi viene posto in capo al contribuente. E ciò, in deroga al principio giuridico generale enunciato dall’art. 2497 cod. civ. secondo il quale chi vuole dimostrare l’esistenza di un fatto ha l’obbligo di fornire in giudizio le prove dell’esistenza del fatto stesso.

In ambito penale, invece, l’unica presunzione operante è quella di non colpevolezza affermata dall’art. 27, co. 2, Cost., e tale principio è posto a fondamento del sistema processuale penale nel quale l’onere della prova spetta, appunto, al P.M.

Quanto al sistema delle prove nel processo penale, giova ricordare che l’art. 193 c.p.c. stabilisce l’inosservanza dei limiti di prova previsti dalle leggi civili, con eccezione di quelli che riguardano lo stato di famiglia e di cittadinanza, mentre gli art. 530, co. 2 e 533, co. 1 c.p.c. , obbligano il giudice ad una pronuncia assolutoria per l’ipotesi di insufficienza di prove, o nel caso in cui sussista un ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato.

Di tal che, la prova del reato in ambito tributario, fondata su una presunzione, non può trovare legittimo ingresso in sede penale.

La giurisprudenza di legittimità è conforme nel ritenere che non è configurabile alcuna pregiudiziale tributaria, con la conseguenza che il processo penale non sottostà né ai tempi, né agli esiti del procedimento tributario, ed altresì che incombe unicamente sul giudice penale il compito di procedere all’accertamento e quindi alla determinazione dell’imposta evasa, ben potendo giungere a determinazioni diverse ed antitetiche rispetto a quelle fatte proprie dal giudice tributario.

L’art. 187, co. 1, c.p.c., infatti, stabilisce che nel processo penale sono oggetto di prova i fatti che si riferiscono all’imputazione ed alla punibilità e, dunque, il giudice dovrà formare il proprio libero convincimento su fatti concreti dimostrati in giudizio e motivati in sentenza (art. 192, co. 1, c.p.c.).

Sulla scorta di detti principi, i Giudici della seconda sezione penale hanno inferito (Cass. 7739/12) che le presunzioni tributarie, seppure possano dare luogo alla notitia criminis, non possono poi, assumere ex sé valore di prova nel giudizio penale nel quale vengono meno sia l’inversione dell’onere della prova che le limitazioni alla prova viceversa poste dalle leggi tributarie. Il che, chiosano i Supremi Giudici, non vale ad escludere l’utilizzabilità delle presunzioni tributarie nel contesto del processo penale, bensì a delimitarne la consistenza: esse possono assumere il valore di indizi, come tali valutabili dal giudice penale, con l’effetto che la prova penale non può conseguire al fallimento della prova contraria offerta dal contribuente, ma solo alla positiva ricostruzione effettuata dal giudice penale di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di reato, anche discostandosi dalle risultanze e dalle conclusioni dell’accertamento tributario, dovendosi dare prevalenza al dato fattuale e non ai criteri meramente formali propri dell’ordinamento tributario.

In tema di indizi è bene ribadire che gli stessi hanno ingresso nel processo penale solo in via di eccezione quando siano gravi, precisi e concordanti, a voler sottolineare come il libero convincimento del giudice non debba e non possa affatto basarsi su sospetti, supposizioni, su elementi soggettivi cioè che non trovino riscontro in elementi oggettivi connotati dall’aggettivazione indicata nella norma.

E ciò appare quantomeno evidente laddove si consideri che l’indizio, non costituendo un fatto direttamente rappresentativo del fatto da provare, può assumere valenza probatoria solo se possiede i requisiti che l’art. 192, co. 2 prescrive debba avere, mentre una tale esigenza non sussiste per la prova diretta che, a differenza dell’indizio, una tale idoneità possiede di per sé, a prescindere dal rilievo probatorio che in concreto potrà esserle poi attribuito.

Così, per Cass. Pen., Sez. III, n. 7078/2013, le presunzioni portate dall’art. 32, co. 1, n. 2, D.P.R. 600/73, operano solo all’interno del procedimento amministrativo, mentre nessuna immediata conseguenza può ravvisarsi nell’ambito del processo penale ove, lungi dal costituire prova del reato, possono al più avere valore di indizi che il giudice penale può valutare liberamente, ma che per conferire certezza all’esistenza del delitto necessitano di ulteriori elementi.

Conforme la pronuncia resa dalla terza Sez. Pen., n. 37071/2012, la quale, nel ribadire l’autonomia del procedimento penale rispetto a quello tributario, non esclude che ai fini della formazione del proprio convincimento il giudice penale possa avvalersi degli stessi elementi che determinano presunzioni secondo la disciplina tributaria, a condizione, però, che gli stessi siano assunti non con l’efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione ai fini probatori.

Spetta dunque al giudice penale verificare l’eventuale superamento delle soglie di punibilità, non già in modo presuntivo, bensì ancorando le proprie determinazioni a fatti concreti.