Trasferta e trasfertismo: la Cassazione oscura i chiarimenti di prassi
di Luca Vannoni
A seguito dei chiarimenti di prassi emanati, nell’ultimo decennio, dall’Agenzia dell’Entrate e dall’INPS, si era radicata nei datori di lavoro e nei professionisti che li assistono l’idea che l’applicazione del regime fiscale della trasferta, art. 51, comma 5 del TUIR, in luogo del regime del trasfertista, regolamentato dal comma successivo, potesse essere determinata in base alla modalità di erogazione del trattamento economico, e, pertanto, rientrasse nella libera determinazione del datore di lavoro.
I chiarimenti di prassi intervenivano in un contesto normativo particolare, dove la trasferta non aveva, e non ha, una definizione normativa esplicita, esclusivamente frutto di elaborazioni interpretative giurisprudenziali, e dove il trasfertista non ha visto attuata la disposizione, contenuta in coda al comma 6 dell’art. 51, che consentiva al Ministero delle Finanze, di concerto con il Ministero del Lavoro, di individuare e tipizzare la categoria dei trasferisti.
È opportuno ora introdurre la definizione degli istituti di cui si tratta: per trasferta si intende la temporanea assegnazione a una sede di lavoro diversa da quella abituale, per trasfertisti, e in questo caso abbiamo una definizione normativa, si intendono lavoratori tenuti per contratto all’espletamento delle attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi, a cui viene riconosciuta, anche con carattere di continuità, indennità e maggiorazioni retributive.
Dalla qualificazione discendono due regimi fiscali distinti: in caso di trasferta, oltre alla possibilità di rimborsare analiticamente le spese sostenute dal lavoratore, rimborsi fiscalmente e contributivamente esenti, sono previste delle soglie di esenzione per le indennità forfettarie, ridotte in caso di presenza concomitante di rimborsi analitici (sistema misto); per i trasferisti, viceversa, le relative indennità e maggiorazioni sono imponibili al 50%.
Partendo dal quadro normativo sopra rappresentato, Agenzia dell’Entrate e INPS hanno fornito le proprie interpretazioni operative. In primo luogo, la circolare n.326/97 del Ministero delle Finanze precisò che il regime da trasfertista si dovesse applicare a tutti quei soggetti ai quali viene attribuita una indennità, chiamata o meno di trasferta, attribuita, per contratto, per tutti i giorni retribuiti, senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove si è svolta la trasferta. Poco importa al Ministero delle Finanze del trasfertismo sostanziale: la circolare 326 afferma, infatti, che è irrilevante cercare le motivazioni del riconoscimento dell’indennità per tutti i giorni di lavoro, “se cioè dipenda da una volontà delle parti di semplificare le modalità di calcolo della retribuzione, trattandosi comunque di soggetti che per l’attività svolta sono di frequente in trasferta, ovvero se dipenda dal fatto che si tratta di soggetti il cui contratto o lettera di assunzione non prevede affatto una sede di lavoro predeterminata”.
Proseguendo su questo solco, con la successiva circolare 19 maggio 2000, n.101/E, il Ministero delle Finanze ha riconosciuto la possibilità di riconoscere un’indennità di trasferta, soggetta alla disciplina fiscale del comma 5 dell’art. 51 TUIR, agli autisti, fisiologicamente e ontologicamente trasfertisti, nel caso in cui tale indennità non sia riconosciuta nei giorni di assenza, nei giorni di ferie, nei giorni di permesso, malattia, infortunio e comunque quando non venga svolta la prestazione di lavoro. Solo in presenza di tale condizione, infatti, è possibile trattare l’elemento economico come indennità di trasfertismo, con l’applicazione del comma 6, art. 51 TUIR.
L’INPS, a sua volta, con il messaggio 27271 del 5 dicembre 2008 ha cercato di indirizzare in modo univoco gli orientamenti del proprio personale ispettivo, che, in molti casi, negava la possibilità di trattare come trasferta ex comma 5, art. 51 TUIR le indennità riconosciute a lavoratori che svolgevano prestazioni strutturalmente itineranti.
Tra le caratteristiche individuate come essenziali per la qualificazione del trasfertista, l’INPS evidenziava i seguenti tre aspetti:
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la mancata indicazione nel contratto e/o lettera di assunzione della sede di lavoro;
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lo svolgimento di una attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente (ossia lo spostamento costituisce contenuto ordinario della prestazione di lavoro);
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la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di una indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa vale a dire non strettamente legata alla trasferta poiché attribuita senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove si è svolta la trasferta.
A partire dal 2012, tuttavia, si è sviluppato un orientamento giurisprudenziale di segno contrario, nel quale si colloca la recentissima sentenza Cass. civ. Sez. lavoro, 07‐10‐2013, n. 22796: secondo la Suprema Corte, non è rilevante la corresponsione in via continuativa dell’indennità da trasfertista – vedi il punto 3 sopra indicato – per la qualificazione come tale, in quanto la natura del trasfertista discende dall’effettive modalità di svolgimento della prestazione di lavoro e, in particolare, dall’assenza di un luogo di lavoro abituale.
In base a tale principio, sono considerati legittimi quei recuperi contributivi attuati dall’INPS, in particolare nel settore edile e manutenzione metalmeccanica, in relazione alle trasferte riconosciute a lavoratori privi di una sede di lavoro abituale.
Attenzione quindi: i primi a disapplicare le interpretazioni di prassi sono gli stessi enti emananti, in particolare l’INPS!