Il professionista deduce il risarcimento a terzi
di Giovanni Valcarenghi
Ove un professionista eroghi delle somme a terzi a seguito della richiesta di risarcimento di danni, ha la possibilità di dedurre tali poste nella determinazione del reddito di lavoro autonomo? La risposta, sia pure a determinate condizioni, è certamente positiva, così come confermato dalla CTP Cremona, 9 aprile 2013 n.39.
Nel caso di specie, si trattava di un commercialista che, avendo ricoperto la carica di componente del consiglio di amministrazione di una società poi fallita, era stato chiamato dal curatore, congiuntamente agli altri amministratori, a rispondere patrimonialmente di un danno di ingente importo. Lo stesso soggetto, dopo avere trovato una transazione con il curatore in merito all’ammontare delle somme dovute, aveva provveduto alla erogazione di un anticipo in denaro e, per la restante parte, aveva stipulato un contratto di mutuo con una banca, deducendo l’importo degli interessi passivi.
In sede di accertamento, l’Agenzia contesta la inerenza di quei costi dedotti, sulla scorta del ragionamento che la carica ricoperta dal soggetto fosse di tipo privatistico e non legata all’attività professionale svolta; si è difeso, invece, il professionista, sostenendo che i costi fossero inerenti l’attività e, pertanto, deducibili secondo il criterio di cassa.
Va detto che, dalla lettura della sentenza, non emerge in modo chiaro l’esistenza di compensi percepiti dall’amministratore oggetto di accertamento, circostanza che avrebbe potuto parzialmente dirimere la controversia; probabilmente, il cattivo “stato di salute” della società (poi fallita) ha determinato l’impossibilità di erogazione degli eventuali compensi.
I giudici, in ogni caso, accolgono il ragionamento del contribuente accertato, in forza del quale la particolarità dell’attività svolta (appunto quella di commercialista) determinerebbe una sorta di forza attrattiva dell’incarico all’alveo professionale. Inoltre, osservano i giudici, non risulta che il soggetto accertato fosse, nemmeno in parte, proprietario di quote societarie, così da fugare definitivamente il dubbio in merito alla possibile esistenza di una legittima gratuità dell’incarico (anche se, al riguardo, non si comprende il motivo per cui il fatto di essere socio debba determinare l’esistenza di un incarico gratuito).
I giudici si premurano di ricercare un collegamento diretto tra la stipula del mutuo ed il risarcimento del danno: è stato sufficiente verificare che la richiesta di risarcimento risaliva al mese di maggio di un certo anno, e la stipula del finanziamento era fatta nel successivo mese di giugno. Dunque, come a dire che il mutuo stipulato dopo la richiesta di risarcimento si presume necessario alla erogazione delle somme per onorare gli accordi assunti con il curatore.
Nemmeno è stato valutato in modo negativo il fatto che il finanziamento fosse di importo ragguardevole, in quanto il definitivo accordo sulle somme effettivamente dovute è risultato poi di data successiva. Ma, anche si fosse verificata tale condizione, si sarebbe potuto, al più, contestare una parte della eccedenza degli interessi, e non l’intera posta.
Comunque sia, dalla lettura del dispositivo, possiamo ricavare un principio generalizzabile: nello svolgimento dell’attività di lavoro autonomo, eventuali somme pagate a titolo di risarcimento a terzi per mancanze relative all’attività professionale, risultano deducibili, ove pagate, a prescindere dal fatto che siano connesse ad un incarico per il quale si siano incassati dei compensi. Ciò appare confortante anche per le posizioni relative alle contestazioni attinenti gli incarichi sindacali, ove spesso, oltre a non percepire remunerazione, si rischia anche di essere coinvolti a titolo di responsabilità patrimoniale.
Dagli atti, poi, si evince che il soggetto non aveva alcuna copertura assicurativa, almeno ciò si può intuire per effetto del fatto che si è dovuto indebitare per poter pagare il dovuto. Si può allora ricordare che, in forza di orientamenti passati (che ora speriamo superati), si riteneva che la deduzione del premio assicurativo precludesse la possibilità di ulteriori stanziamenti, poiché la prima somma assorbiva in modo forfetario i secondi. Così invece non dovrebbe essere, per il semplice fatto che, ove i massimali siano insufficienti, la quota eccedente rappresenta una spesa senza dubbio inerente con lo svolgimento dell’attività professionale.