Iva indetraibile sui servizi resi dalla holding senza adeguata organizzazione
di Fabio Landuzzi
Se la società capogruppo non dispone di una organizzazione di mezzi e di risorse adeguata per la prestazione concreta dei servizi fatturati, anche in considerazione dell’ammontare dei corrispettivi applicati, i costi addebitati alle proprie controllate o consociate in base a contratti di servizio stipulati fra le parti sono ritenuti fittizi e quindi la relativa Iva non è detraibile per le società che sostengono i relativi costi.
Questa l’affermazione della Corte di Cassazione (sent. n.22135/2013) che avalla la prova presuntiva prodotta nell’accertamento dall’Amministrazione finanziaria, e che era stata confermata anche nei precedenti gradi di giudizio.
Sono state pertanto ritenute fittizie, e perciò inesistenti, le cessioni di beni e le prestazioni di servizi intercorse fra società dello stesso gruppo in quanto è stata riscontrata la mancanza di strutture idonee in capo alla società che ne asseriva l’effettuazione, nonché una sproporzione fra le prestazioni rese e gli importi fatturati; un ulteriore elemento che ha supportato la rettifica Iva è stato individuato nella mancanza di movimenti di cassa, in quanto le reciproche posizioni di credito e debito venivano regolate mediante compensazioni senza che vi fosse mai alcun transito di denaro. L’insieme di questi indizi, unitamente alla formazione di crediti d’imposta potenzialmente rimborsabili, è stato ritenuto elemento sufficiente a presumere la fittizietà delle prestazioni asseritamente svolte e degli importi per esse fatturati, e perciò negare la detrazione dell’Iva addebitata in fattura dalla capogruppo.
La Cassazione ha ritenuto che l’Amministrazione finanziaria avesse sufficientemente provato l’inesistenza di un’attività economica effettiva, e la creazione di reciproche operazioni attive e passive al solo scopo di avvantaggiarsi della detrazione Iva e creare posizioni di indebito credito verso l’Erario. La Suprema Corte a questo riguardo fa anche il punto sul tema dell’onere della prova, chiarendo che compete all’Amministrazione finanziaria, quando intende negare al contribuente il diritto alla detrazione dell’Iva da questi assolta sugli acquisti e contabilizzata, dimostrare anche mediante presunzioni gli elementi di fatto che concretizzano la frode e/o la consapevolezza della stessa da parte del contribuente; a questo scopo non bastano semplici indizi, ma la prova può essere fornita mediante presunzioni purché dotate di gravità, precisione e concordanza.
Viene richiamata l’ampia giurisprudenza della Corte di Giustizia in merito al principio di neutralità dell’Iva, ed alla buona fede del cessionario / committente il cui diritto di detrarre l’Iva non può essere negato ove egli “non sappia o non possa sapere” di essere coinvolto in un meccanismo fraudolento. Richiamando i principi affermati nella precedente sentenza n.6849 del 20/3/2009, la Cassazione ha perciò ribadito che poiché si tratta di una rettifica Iva riferita a contratti di cessione di beni o prestazione di servizi fra società appartenenti allo stesso gruppo, l’articolo 54, comma 2, del D.P.R. 633/1972, non consente che siano sufficienti semplici indizi, bensì occorrono circostanze gravi, precise e concordanti.
Nel caso di specie, le prove presuntive portate dall’Amministrazione finanziaria, sono state ritenute dotate dei suddetti requisiti così da rendere evidente la consapevolezza del contribuente circa la stipula fittizia dei contratti e la partecipazione ad un meccanismo abusivo finalizzato alla creazione di indebiti crediti Iva.