Il contratto psicologico
di Michele D’AgnoloTutte le persone che collaborano con lo studio sono legate da un rapporto contrattuale, magari anche non scritto e soltanto di fatto. I soci sono reciprocamente vincolati dal patto societario o associativo, i collaboratori da un contratto continuativo di lavoro autonomo, i dipendenti da un contratto di lavoro dipendente, i praticanti da un contratto di tirocinio.
Per il mestiere che facciamo, sappiamo tutti che la carta si lascia scrivere e che nella realtà le cose possono essere completamente diverse da quanto pattuito o messo ufficialmente nero su bianco. E così abbiamo dipendenti che sono più responsabili di un socio e che, ad esempio, non lascerebbero mai un lavoro a metà anche se questo comporta lunghe ore di straordinario presso lo studio. E parimenti possiamo avere soci che sono più irresponsabili e demotivati del più inadatto dei praticanti.
Quasi sempre il fatto di avere concluso ufficialmente un contratto siglandolo non è che l’inizio di un lungo negoziato. Specie quando il contratto prevede una prestazione continuativa nel tempo e di lunga durata come quella lavorativa presso uno studio professionale. Nei molti anni di una carriera lavorativa, infatti, la prestazione può variare grandemente nel tempo per qualità e impegno. Anche perché negli studi professionali l’apporto lavorativo è strettamente correlato alla motivazione della persona che lo deve svolgere. E la motivazione è figlia dell’ineffabile.
Ci rendiamo subito conto che in realtà in ogni rapporto lavorativo, accanto al contratto sottoscritto si forma un vero e proprio patto psicologico tra il datore di lavoro e il prestatore di lavoro.
Nell’ambito del patto psicologico, il lavoratore scambia la propria motivazione, la propria dedizione e il proprio impegno con una serie di aspetti di serietà, coerenza e fiducia che vengono richiesti al datore di lavoro. Puntualità nella retribuzione, chiarezza nei passaggi di carriera, equità nella gestione dei carichi di lavoro, adeguatezza della formazione, attenzione ai bisogni e problemi contingenti della persona sono alcuni degli aspetti valutati dal lavoratore.
La maggior parte degli studiosi sono concordi nel ritenere che il contratto psicologico si forma proprio nelle prime fasi del rapporto lavorativo, e precipuamente nella fase di selezione e nell’inserimento nel mondo dello studio.
Spesso il contatto psicologico con i nostri collaboratori e dipendenti più senior è partito bruscamente, prevedeva sostanzialmente che si arrangiassero senza il nostro aiuto. Di conseguenza abbiamo sostanzialmente allevato in casa degli anarchici e oggi facciamo fatica a riportarli ad una maggior disciplina organizzativa. Il contratto psicologico per come loro lo interpretano prevede infatti la massima libertà di auto organizzazione nella ambito della efficacia del loro intervento. E chiedere di lavorare in un modo diverso significa ai loro occhi violare il patto entrando nell’alveo della loro professionalità. Un patto per il quale si sono adattati ad imparare da soli, con un meccanismo di tentativo ed errore, a inizio carriera, con tanta fatica.
È palese che il contratto psicologico, come tutti gli altri contatti, si presta ad essere interpretato in modo difforme dalle parti e questo crea più di qualche problema.
Anche se l’accordo di lavoro del dipendente dello studio recita, ad esempio, “contratto a tempo indeterminato”, il dipendente si farà spesso l’idea che quel contratto è per sempre. E si arrabbierà moltissimo se è un certo punto il datore di lavoro gli intima era il periodo di preavviso e il licenziamento. Qualche volta anche quando siano già maturati i requisiti per la pensione di vecchiaia. Salvo ricordarsi che basta dare preavviso per andarsene quando avrà bisogno lui di trasferirsi da un’altra parte o di una maggiore flessibilità di orario che lo studio non è in grado di garantire o di qualche euro in più. In tal caso sarà stato il datore di lavoro a illudersi che quel contratto era per sempre, mentre in realtà il lavoratore con il suo comportamento ci farà presente che non è così. Piantandoci magari in mezzo a una campagna di dichiarativi e difendendosi asserendo di aver semplicemente attivato un proprio diritto.
Come nel più becero menage di coppia, i tradimenti del contratto psicologico sono vissuti molto male da entrambe le parti.
Spesso per fare naufragare il contratto psicologico basta un piccolo granellino di sabbia affinché l’ingranaggio si blocchi anche per un lunghissimo un periodo di tempo.
Talvolta basta una sola parola di troppo da parte di un nostro consocio per sentirci completamente disprezzati nella nostra professionalità o addirittura nella nostra persona e spingerci quindi a tirare i remi in barca. Anche per molti anni a venire. Altre volte invece il contratto è rafforzato da elementi di gratitudine e riconoscenza per motivi extra lavorativi.
E così ci sono dipendenti che rimangono per decine d’anni all’interno di uno studio perché magari sono stati aiutati dal loro datore di lavoro in un momento di particolare bisogno familiare o personale. Non avranno lo stesso legame se lo studio passa di mano, anzi in quei casi è probabile che rivedano la propria posizione tout court.
Come abbiamo visto, alle volte sono le operazioni straordinarie dello studio a creare i problemi. Una fusione tra più studi professionali può essere vissuta come una retrocessione sul campo dai dipendenti chiave degli studi nubendi. Infatti la signora Maria, impiegata storica numero due dello studio, dopo la fusione diventa automaticamente numero quattro o cinque perché viene sorpassata a destra nella gerarchia non scritta dai nuovi consoci. Non stupiamoci dunque se dovremo raccoglierla con il cucchiaino e sarà meno motivata di un teenager durante l’ora di latino.
Ma non sono necessariamente solo guai. Il contratto psicologico può fare anche miracoli, può motivare anche la persona più demotivata dell’universo. Se ben gestito il contratto psicologico può consentire di trasformare i dipendenti in artefici del successo dello studio. Negli studi in cui il titolare gestisce in modo proattivo e positivo il contratto psicologico, la classica tripartizione tra chi lavora per sbarcare il lunario, chi lo fa per mostrare la propria professionalità e chi lo fa per passione viene meno. Se creiamo uno studio al quale tutti si sentono orgogliosi di appartenere, tutti vogheranno dalla stessa parte. Dobbiamo quindi “vendere” giorno per giorno lo studio ai nostri collaboratori.
Quando il contratto psicologico finisce, spesso ci sono dei segnali deboli che ci fanno capire che il collaboratore non è più a bordo, anche molto prima che ci comunichi il recesso dal corrispondente contratto giuridico. Ricordo una segretaria perfetta, che fece l’unico errore di distrazione della sua lunga carriera presso lo studio proprio qualche giorno prima di comunicarmi che se ne sarebbe andata avendo vinto un concorso in una importante organizzazione internazionale. È evidente che lei sapeva già che se ne sarebbe andata via ed è altresì evidente che dal momento in cui lo aveva saputo non era più a bordo dello studio, almeno non psicologicamente. Del resto, come biasimarla. Io per esempio, se vincessi qualche milionata di euro al totocalcio, mi spaccherei entrambe le braccia a fare il gesto dell’ombrello sotto allo studio. E tanti saluti a tutti.
Quando qualcuno non ci sta più con la testa e quindi non crede più nell’organizzazione per cui lavora, crea notevolissimi problemi alle altre persone all’interno dello studio. Tanto che si ritiene quasi sempre di non far consumare al soggetto in uscita il periodo di preavviso lavorandolo, ma si preferisce farlo rimanere a casa. A meno che la presenza del lavoratore non sia assolutamente indispensabile. Questo perché naturalmente gli effetti sulla motivazione di chi rimane possono essere devastanti. Inoltre, molto spesso, i lavori che sono stati eseguiti dal lavoratore sul piede di partenza, devono essere rifatti perché la carenza di motivazione li rende potenzialmente pericolosi dal punto di vista del rischio professionale.
Ecco perché nelle clausole associative occorre sempre trovare il modo di consentire al professionista di uscire dal sodalizio, seppur penalizzato, ma con l’onore delle armi. Non avrebbe alcun senso economico mantenere un vincolo meramente giuridico.
Anche elementi di sopravvalutazione fatti a fin di bene come un eccessivo ricorso alle lodi o promozioni premature possono comportare attese psicologiche che poi saranno difficilmente onorabili da parte del datore di lavoro.
È quindi compito del titolare dello studio tenere sempre sotto controllo le aspettative del collaboratore riducendole al ribasso. Gestire il contratto psicologico può significare anche dover rendere sempre ardua la salita per un professionista altrimenti si demotiva e da tutto per scontato.
La morale della favola, stavolta, mi sembra evidente. Se gestite uno studio non muovetevi, senza prima aver consultato l’avvocato e lo strizzacervelli. Nell’ordine che preferite.
Buon lavoro.