9 Dicembre 2014

Strane creature

di Michele D’Agnolo
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Negli studi professionali italiani, le strutture organizzative sono generalmente piuttosto semplici. Di conseguenza, le risorse umane dovrebbero essere abbastanza agevoli da classificare.

Dovremmo innanzitutto riscontrare una chiara suddivisione tra professionisti e dipendenti.

  1. I primi, dediti alla consulenza, al problem solving, alla gestione delle pratiche più difficili, sono generalmente destinatari di una più o meno marcata evoluzione carrierale da praticante a collaboratore, a titolare o contitolare. Negli studi più strutturati avremo magari degli scalini ulteriori. A livello di titolari, distingueremo inoltre i partner di utili e dei partner di capitali.
  2. I dipendenti, invece, saranno di norma figure destinate a ricoprire ruoli para-professionali, strumentali e di supporto all’attività dei professionisti, quale segreteria generale, contabilità, elaborazione dei cedolini paga, ecc…

E tuttavia sarebbe troppo semplice se il mondo fosse veramente così. In realtà i nostri studi professionali sono spesso popolati di strane creature. Soggetti che difficilmente si lasciano incasellare con chiarezza nelle categorie che abbiamo delineato.

E così nella fauna di studio possiamo distinguere, ad esempio, il falsus praticans, il consulente in pectore, il consulniente e il topo di biblioteca.

Il falsus praticans è un neodottore che strada facendo si accorge che sta meglio a non crescere. Laureato tardissimo e con il minimo dei voti, sembra sia stato catapultato in studio per sbaglio. È l’eterno Peter Pan della professione. Veterano del corso praticanti presso l’ordine, ha fatto l’esame di stato una manciata di volte ma rimane perennemente nel limbo. Fino a convincersi che quello è il suo posto nella vita. Né carne né pesce. Darebbe un occhio della testa per poter passare a libro paga e fare la pensione in studio. Non cresce e non impara cose nuove salvo che ne sia costretto dal titolare dello studio. Alle richieste degli altri risponde mimetizzandosi accuratamente dietro le altre incombenze. E ogni nuovo compito in più deve essere accompagnato da mezza giornata di persuasione, da un esonero di compiti precedenti e da una formazione accurata, che deve ripartire almeno dalla mela di Adamo ed Eva.

Lo riconosci facilmente perché, contrariamente agli altri professionisti che sono sempre stressatissimi, distrattamente vestiti e con il muso lungo, è sempre di buon umore e fresco di tintoria.

Il falsus praticans adora sparire nei corridoi dello studio con una cartina in mano, fino a farsi inghiottire dai vortici della contabilità o dell’elaborazione dei cedolini. In ambito legale ama invece le code, ciarliere e riposanti, davanti alla porta delle cancellerie. I reparti elaborativi e le commissioni fuori studio sono degli autentici buchi neri nei quali qualsiasi quantità di persone verrà immediatamente assorbita a fare e disfare lavori a bassissimo valore aggiunto. E tra l’altro, le nostre vestali della busta paga e i nostri piccoli Luca Pacioli hanno così bisogno di lui o di lei dentro al reparto che quando il professionista chiama dall’esterno per chiedere qualcosa, il nostro non può rispondere perché è già impegnato.

Secondo i titolari, il falsus praticans familiarizza troppo con la truppa. Mangia con loro, e come loro fa i pisolini di nascosto sui mucchi delle pratiche da archiviare quando i professionisti sono fuori sede. Non esce di studio per andare da un cliente se non per andare a comprarsi il pranzo. Detesta i nuovi quesiti, trova la frequentazione dell’Ordine e delle associazioni di categoria un po’ vintage: preferisce di gran lunga andare a giocare a tennis. “Mens sana in corpore sano, caro Dottore. Mica come Lei che da quando si è iscritto all’Ordine vive di antiacidi e di panini trangugiati in fretta tra una telefonata e una mail.”

Nella prossima gabbia del nostro zoo professionale troviamo un’altra creatura affatto particolare. Il consulente in pectore. Il consulente in pectore è un dipendente che si è stufato di fare sempre le stesse cose. In cuor suo ha sempre desiderato fare dell’altro. Pensate peraltro che noia per tutta la vita inputare contabilità o formulare dichiarativi. Chiusi dentro in una stanza con la faccia appiccicata ad uno schermo baluginante, tra montagne di carte alla rinfusa. Una vita illuminata solo dalla freddezza del neon e dalla gioia di timbrare il cartellino per rincasare, a volte anche a notte fonda. Spesso senza mai neppure un grazie.

È molto meglio fare consulenza. I clienti ti cercano, si confidano con te. Hanno perfino… bisogno di te. Ti raccontano un sacco di cose interessanti che poi puoi spargere ai quattro venti quando il fine settimana o a sera vai a sfogarti dal parrucchiere o in palestra.

Il consulente in pectore lo si riconosce facilmente perché non rispetta quasi mai l’ordine di esecuzione delle pratiche desiderato dai titolari di studio. Lascia sempre per ultime quelle che per noi sono le più urgenti. Fa solo quelle che gli piacciono e quelle dei clienti che gli sono simpatici e in quelle mette una cura quasi maniacale, fino a farle costare il doppio o il triplo. Il tripudio del colloquio e della telefonata. Altro sintomo: consulente in pectore ha sempre tempo per rispondere immediatamente alle mail, e le risposte raramente durano meno di una pagina.

Il problema è che il consulente in pectore ha una lunghissima esperienza pratica, ma sovente non conosce la normativa e conseguentemente non è in grado di affrontare compiutamente casi nuovi che richiedono una accurata valutazione e ponderazione di novità legislative, interpretazioni, definizione del rischio. Degli iceberg vede solo le punte, e pertanto spesso naufraga lo studio come il Titanic dentro al gelido mare della responsabilità professionale.

Non a caso, il consulente in pectore è adorato dai clienti più beceri dello studio. Quelli che quando li incontri nel corridoio ti chiedono la luna nel pozzo ma non si accomodano in sala riunioni perché hanno paura che appena posano le terga sulla poltroncina scatti il tassametro. Il cliente sa che il consulente in pectore non è avaro di consigli come noi, anzi non vede l’ora di mettere in mostra la propria erudizione e al momento di segnalare l’attività per la fatturazione chiuderà volentieri un occhio. Il consulente in pectore è una autentica Onlus dentro lo studio. Il nostro Victor Ukmar in erba non vuole che ci sia traccia di questa sua attività parallela, che giustamente i titolari dello studio non vedono di buon occhio. E quando lo pescano, ha l’alibi già bello e pronto. Lui lo fa esclusivamente a fin di bene.

Ma la galleria dei fenomeni che albergano negli anfratti dei nostri studi non finisce qui. Tra le strane creature che popolano i nostri uffici ce n’è un’altra che merita la nostra attenzione. E’ il famigerato consulniente. Si tratta di un professionista che non ama studiare ma che, in compenso, ha un sacco di amicizie. Lo si distingue subito perché la compagnia telefonica gli ha bloccato e ritirato il contratto a forfait per eccesso di utilizzo. Ha almeno due telefonini. Uno all’orecchio e l’altro sempre in carica. E’ il social network di sé stesso.

Il consulniente è uno che fa consulenza per sentito dire. Non sa nulla e non studia nulla. Gli manca ab origine quell’ elemento fondamentale dell’armamentario del professionista che è la curiosità intellettuale e rinuncia con facilità all’altro importante paradigma che è quello dello scetticismo professionale. Quando non sa qualcosa, chiede agli amici, ai colleghi di studio, oppure fa mente locale e si ricorda che una certa pratica di due anni fa si è fatta in un certo modo. Magari nel frattempo la norma è cambiata. Se proprio ne è costretto, sfruguglia distrattamente dentro ai manuali, nei bigini della professione. Con estremo ribrezzo si accosta alla circolare. Il testo normativo proprio lo aborrisce, è un orpello inutile la cui ricostruzione lo allontana dalle amicizie. Molto meglio farsela raccontare dal compagno di scuola che lavora presso gli uffici o dal cancelliere. Anche se l’oste tende sempre a dire che il suo vino e quello buono. Talvolta questi soggetti sono tollerati all’interno dello studio in virtù dell’apporto di clientela. Non sempre però l’attività di acquisizione di questi soggetti compensa la loro scarsa preparazione tecnica e la loro non assidua presenza in studio. Non possiamo permetterci di mantenere quello che gli inglesi chiamerebbero un “senior drinking partner”.

L’esatto opposto del consulniente è il topo di biblioteca. Supersecchione, teorico della vita e della professione, lo riconosci perché è l’unico che non ha le riviste ancora incellofanate sulla scrivania. Lui non solo le scarta e le disseziona, creando come noi simpatiche raccolte di patchwork cartaceo. Lui, le legge veramente. Anzi, le sa a memoria.

È il tipo di persona che non va neanche a pranzo se non ha studiato prima a memoria il menù. Piuttosto che farsi trovare impreparato preferirebbe morire di fame. Trova peraltro assolutamente dozzinale e volgare il confronto professionale con i colleghi. Perché spendere del tempo per far prevalere la sua tesi che è quella corretta per definizione. Altrettanto infruttuoso consultare gli uffici. Il rischio, in un Paese in cui ciascun burocrate stiracchia la legge a suo uso e consumo, è che questo tipo di collega può prendere delle cantonate gigantesche perché non accetta le prassi, e finisce per combatterla come Don Chisciotte con i mulini a vento. Il topo non accetta di dover dipendere dagli altri, crede che in uno stato democratico si dovrebbe riuscire ad adempiere ai propri obblighi tributari e lavoristici come in quella vecchia pubblicità del deodorante: senza chiedere mai.

In sintesi, spesso i dipendenti, i praticanti e i professionisti dello studio adottano comportamenti non in linea con il proprio ruolo ma piuttosto imitando quelli delle altre categorie di risorse umane presenti all’interno dello studio. Altre volte interpretano il proprio ruolo enfatizzandone solo alcuni tratti, in modo non equilibrato. Di questa confusione di ruoli e di questi squilibri è importante che i titolari di studio siano informati per intervenire con gli opportuni correttivi. Altrimenti diminuisce l’efficienza e aumenta il rischio professionale complessivo della struttura.