Quando i collaboratori non collaborano: cortesia e comunicazione con il cliente
di Michele D’AgnoloLa generalizzata riduzione del potere d’acquisto in capo ai clienti tende a renderli molto più sensibili agli aspetti relazionali delle prestazioni di servizi: non siamo più disposti ad accettare la commessa antipatica, il barista scortese, l’addetto allo sportello che ci ignora. Tutti vogliamo essere trattati come dei veri signori quando acquistiamo qualsiasi cosa, anche la più banale: dopotutto, facciamo al nostro fornitore la non piccola cortesia di sceglierlo.
Di conseguenza, si continua a ridurre la tolleranza verso le “barriere alla comunicazione” come i call center, al punto che anche le compagnie telefoniche più agguerrite hanno dovuto assegnare un consulente fisso per le aziende dando al cliente la possibilità di richiamare la stessa persona del primo contatto in caso di ulteriori necessità.
Il cliente, in particolare, ama trovare presso il proprio fornitore un’organizzazione dal volto umano, dalla quale essere riconosciuto e coccolato. La trasformazione da “client” a “customer”, cioè da cliente casuale ad habitué o, in altre parole, la “fidelizzazione del cliente” avviene principalmente mediante la conoscenza della persona e delle relative abitudini ed idiosincrasie, cui consegue la personalizzazione del servizio.
Negli studi professionali, la “magia” avviene se tutti comunicano con il cliente in modo coerente, dimostrandosi empatici nei suoi confronti. Non ci possono essere “giornate no”, momenti di stress o di fretta: la cura di aspetti come il saluto, la piccola chiacchiera, il contatto con il cliente di cui abbiamo perso le tracce sono un must. Il pediatra che durante una visita medica chiede alla mamma di ricordargli il caso del suo bimbo, suo cliente già da qualche anno, è sulla strada di perdere il proprio incarico: una sana, veloce lettura della cartella clinica qualche minuto prima del consulto, magari corroborata da qualche ulteriore dato relativo alla gestione del cliente (il mitico CRM, acronimo di customer relationship management) può invece fare miracoli.
L’aspetto relazionale che, come abbiamo visto, è fondamentale per tutte le prestazioni di servizi, è ancora più importante nel caso delle prestazioni professionali, tipicamente immateriali ed invisibili. Come il lenzuolo per il fantasma, la comunicazione è lo strumento che più di ogni altro dimostra al cliente l’interesse del professionista alla risoluzione dei propri problemi, la dedizione e l’impegno profuso, nonché i risultati ottenuti. Spesso il cliente non è in grado di valutare la capacità tecnica del professionista, desumendola quindi da elementi esteriori quali la disponibilità, la cortesia, la puntualità ed il tempo dedicatogli.
In altri casi, è proprio la natura di “bene esperienza” della prestazione professionale che ne impedisce una valutazione a priori e, di nuovo, la comunicazione supplisce alla endemica mancanza di notizie permettendo di evitare fenomeni di “doppio azzardo morale” del tipo, noi non capiamo cosa vuole il cliente, gli forniamo una prestazione sbagliata e lui se la prende con noi, restando entrambi “scottati”.
Una buona comunicazione inoltre assicura la comakership, cioè la collaborazione del cliente alla buona riuscita dell’incarico attraverso la messa a disposizione delle informazioni rilevanti: se il cliente non racconta al medico tutti i sintomi, la cura sarà sbagliata e potrà essere inutile o addirittura controproducente. Volendo sintetizzare, la comunicazione consente di creare con il cliente un rapporto empatico, costruendo una relazione di fiducia che permetta di affrontare tutti gli argomenti, anche i più difficili, senza timore di ricadute sulla qualità della relazione.
Queste nozioni, tuttavia, non sempre trovano riscontro nella cultura dei nostri collaboratori e dipendenti ed anzi, fino a qualche tempo fa, nei nostri studi veniva tollerata la presenza di soggetti di grande capacità tecnica e produttiva ma relazionalmente complicati: in molte realtà trovavamo la persona scorbutica, meteoropatica, umorale, etc. …persone che talvolta anche gli stessi titolari dello studio evitavano quando “non era giornata”. In altri casi, la “ruvidità” era una sorta di fringe benefit che veniva concesso alle persone veramente brave in luogo dell’aumento di stipendio: ogni tanto per premio gli si lasciava “mangiare” un cliente o una collega per soddisfarsi.
Purtroppo oggi il mito del dott. House è assolutamente sotto scacco: occorre rendere tutti i nostri collaboratori edotti della necessità di acquisire arti comunicative e diplomatiche degne dei più raffinati addetti commerciali.
E d’altra parte un’assistente di volo o il venditore dei libri tecnici, hanno fruito di migliaia di ore di formazione e addestramento sul campo per acquisire precise modalità di saluto, di stretta di mano, di scelta nell’ordine degli argomenti e delle espressioni da utilizzare: noi professionisti invece, che vendiamo un servizio infinitamente più complesso, siamo invece totalmente digiuni di queste discipline ed ancor meno ne sanno i nostri collaboratori e dipendenti.
Tra l’altro, quando gli proponiamo un miglioramento nelle metodologie di comunicazione hanno generalmente due reazioni: o le considerano un’inutile perdita di tempo o addirittura si offendono: “E che mi manca?” sembrano dire, quando ti guardano come qualcuno che si è fatto infinocchiare ed ha comprato un corso assolutamente improduttivo.
In effetti, come abbiamo visto in altro intervento, un corso può essere decisamente poco per controbilanciare anni di prassi: però è almeno un primo passo. L’importante è cominciare a capire che il cliente è un soggetto fortemente emotivo e che il suo stato d’animo influenza grandemente la prestazione: può essere adirato, impaurito, seccato, nervoso e va gestito sempre con impeccabile cortesia ma anche con grande determinazione.
La diplomazia inoltre può essere un toccasana anche per ridurre il tempo mediamente dedicato a ciascun cliente e a renderlo produttivo. Il come “tenere sul pezzo” il dottor Divago senza offenderlo è una cosa che tendenzialmente interessa più noi che i nostri collaboratori, visto che chiacchierare è per alcuni più divertente che fare delivery. La diplomazia è anche un modo per evitare che il cliente si approfitti dei nostri addetti e si faccia fare, spesso gratuitamente, servizi non concordati.
In conclusione, avere uno studio che comunica in maniera empatica e coordinata al cliente significa fidelizzarlo e renderlo felice molto più che curando gli aspetti tecnici del lavoro che, tra l’altro, il cliente da già per scontati da parte del professionista.