17 Settembre 2013

Gestire i collaboratori o lasciar fare?

di Michele D’Agnolo
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Nel passato la nascita di un nuovo studio professionale avveniva quasi sempre per gemmazione. Un giovane professionista che aveva compiuto il tirocinio di fatto presso uno studio avviato lo abbandonava per formarne un altro. Man mano che il lavoro aumentava e diventava soverchiante il giovane professionista assumeva via via una nuova risorsa. Tuttavia, data la concitazione, non c’era la possibilità di formarla e quindi alla persona neoassunta quando chiedeva come organizzarsi veniva spiegato di “arrangiarsi”. L’importante per il professionista era che il lavoro venisse svolto senza errori, indipendentemente dallo sforzo profuso e soprattutto senza disturbarlo dalle proprie molteplici incombenze. Ogni ulteriore sforzo organizzativo era considerato tempo perso rispetto al produrre e al seguire il cliente.

I margini economici erano elevati e così le persone – attraverso meccanismi di prova ed errore – trovavano rapidamente un loro menage organizzativo che li portava a raggiungere una discreta efficacia, ma non aveva alcun bisogno di perseguire efficienza. Spesso la latitanza del professionista li portava a perdersi in un bicchier d’acqua per pomeriggi interi o a consultarsi tutti tra loro in modo assembleare per qualche ora per prendere decisioni che il titolare avrebbe preso in pochi secondi. O a privilegiare pratiche non urgenti ma più agevoli da completare e magari a indulgere nella pausa caffè o a fumarsi una sigaretta di troppo. Tutti siamo stati a scuola e quando il docente era assente nessuno di noi si è messo a fare i compiti del giorno dopo come il bidello avrebbe voluto.

Ora i tempi sono cambiati, la pressione sui prezzi e la competizione sono diventate enormi. La complessità delle pratiche è aumentata e di conseguenza il rischio di errore. I controlli sono ormai capillari e le sanzioni spesso vanificano il risicato utile faticosamente guadagnato. L’efficacia è ormai un requisito da dare per scontato. L’efficienza, invece, è diventata una necessità assoluta come del resto la maestria nell’utilizzo delle tecnologie.

Purtroppo però nei nostri studi i fasti del passato hanno creato corti di professionisti che non sanno e non hanno voglia né tempo di gestire collaboratori e dipendenti che ormai sono diventati degli “anarchici”.

È difficilissimo andare dalla propria capo contabile e dirle per filo e per segno che cosa deve fare da oggi in poi se per vent’anni le avete detto di arrangiarsi. Vi risponderà che molti anni fa, quando lei aveva bisogno di voi … voi non c’eravate mai e quando eravate presenti non volevate essere disturbati: le avete dato carta bianca e ora è troppo tardi.

“Riconquistare” la gestione di uno studio anarchico è quindi un progetto difficile ed energivoro. Serve grandissima perseveranza perché non è pensabile con una semplice disposizione di servizio o una riunione di un paio d’ore di cambiare abitudini “incrostate” in anni e anni di autogestione. Occorrono capacità di comunicazione molto avanzate per riuscire a dire cose spiacevoli senza offendere nessuno.

Serve un approccio razionale ed emotivo insieme, fatto di grandissimo dialogo e di obiettivi chiari e definiti in termini numerici per le persone dello studio. Occorre far percepire alle persone i cambiamenti epocali del mercato. Perdonate l’apparente cinismo, ma l’esperienza mi insegna che a volte più che spiegare, la forma più efficace è quella di toccare il portafoglio.

Cominciamo a conteggiare il danno di qualche piccolo errore e a detrarlo dalla busta paga oppure semplicemente a presentare un conto simbolico del vulnus economico che la persona ha fatto allo studio rispondendo in malo modo al tal cliente o non usando bene gli automatismi di programma. L’euro è un linguaggio crudo ma universale.

Nella riconquista di uno studio anarchico ci saranno alcune persone che forse non gradiranno e magari decideranno di lasciare lo studio o ci costringeranno “per ammutinamento” a provvedimenti disciplinari o financo a licenziarle: sono quelle persone che avevano acquisito nel tempo e con il nostro tacito assenso grande autorità di fatto senza avere alcuna formale responsabilità.

Nel passaggio dal laissez faire ad una forma manageriale gestita dobbiamo scegliere il grado di intrusione da adottare nei confronti degli addetti. Serve equilibrio: se siamo troppo invadenti e microgestiamo i nostri dipendenti e collaboratori, otterremo l’effetto – per reazione – di creare dei bradipi. Se lasciamo loro troppo spazio, ritorneranno in breve e con veemenza le vecchie abitudini. Visto che la risorsa scarsa dello studio è il tempo, è molto utile somministrare nozioni di gestione razionale del tempo e iniziare a utilizzare rilevazioni di timesheet e agende condivise. Incoraggeremo così una forma di autonomia responsabile.

Dobbiamo anche scegliere l’approccio manageriale da adottare per imprimere la giusta direzione al nostro studio e fargli raggiungere i propri obiettivi. Sappiamo bene che la medesima buona squadra di calcio fa miracoli quando ha l’allenatore giusto e finisce in fondo classifica quando ha l’allenatore sbagliato.

Tra i vari stili direzionali adottabili distinguiamo quello paternalistico, quello autoritario e quello partecipativo. Lo stile più adatto ed efficace per gli studi professionali ma anche il più difficile da portare avanti è proprio quello partecipativo.

Lo stile autoritario viene considerato come la forma più primitiva di leadership e si caratterizza per l’utilizzo di metodi autoritari, quali la forza e la tradizione, per ottenere l’acquiescenza. Si tratta di sistemi inadeguati per uno studio professionale dove ognuno deve pensare con la propria testa prima di agire e deve esercitare il suo spirito critico anche nei confronti del capo. Sono modalità che oggi non sono accettate dai lavoratori professionali, tendenzialmente orgogliosi, e sgradite soprattutto alle giovani generazioni cresciute nell’ambiente paritario del web.

Lo stile paternalistico prevede una figura autoritaria di leader che agisce come se fosse un padre benevolente ed autorevole. Quando il leader aggiunge alla propria posizione autoritaria l’interesse verso i seguaci, allora si forma una “dittatura benevolente”. Il leader usa premi per incoraggiare la performance appropriata e ascolta i problemi dal basso dell’organizzazione, benché il modo in cui apprende i problemi può essere “tinto di rosa” in quanto egli apprende solo ciò che i subordinati vogliono che il leader senta.

Lo stile relazionale e partecipativo, quello vincente per uno studio, punta invece a costruire un ambiente al quale tutti desiderino appartenere, basato sul dialogo aperto e sincero, rispettoso delle individualità, dove il clima è cordiale ma rispettoso dei ruoli, fortemente meritocratico ma con una punta di solidarietà. È a questo che dobbiamo puntare ed è per questo che dobbiamo imparare a “gestire”.