Occultamento delle scritture e ricostruzione del volume d’affari
di Luigi FerrajoliIn data 14 giugno 2016 la Corte di appello di Lecce si è pronunciata in materia di reati tributari e ha statuito che, ai fini della configurabilità del reato di occultamento o distruzione di scritture contabili, non rileva il fatto che la documentazione sia stata comunque reperita e ricostruito il connesso volume di affari, atteso che la norma intende assicurare la trasparenza fiscale del contribuente e non attribuisce rilievo alla ricostruzione ab externo – attraverso riscontri incrociati – delle operazioni non documentate presso i soggetti economici cui si riferiscono quelle operazioni.
Orbene, nel caso di specie, il titolare di una ditta individuale era stato condannato dal Tribunale di Taranto alla pena di mesi sei e giorni venti di reclusione per il reato di cui all’articolo 10 del D.Lgs. 74/2000, per avere occultato e distrutto, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, le scritture contabili e i documenti di cui è obbligatoria la conservazione – segnatamente, sei fatture di acquisto relative agli anni 2008 e 2009 – in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari della ditta medesima.
Avverso detta pronuncia l’imputato aveva presentato ricorso innanzi alla Corte di appello di Lecce, deducendo:
- l’assenza di prova relativamente all’originaria istituzione dei documenti contabili e quindi l’impossibilità di stabilire se il mancato rinvenimento dipendesse da un’omissione originaria o da una sopravvenuta attività di eliminazione;
- che la prova di responsabilità fosse fondata sul riscontro incrociato tra quanto rinvenuto presso la sua ditta individuale e presso un’altra società, ricostruzione che sarebbe stata – a sua detta – irrilevante ai fini dell’integrazione del reato.
Analizzando nel merito la questione, il giudice di secondo grado ha preliminarmente rilevato come, non essendo stato l’imputato in possesso di alcuna documentazione fiscale e contabile ed essendo state rinvenute presso la società emittente le copie di sei fatture d’acquisto, nessun pregio potevano rivestire le soprarichiamate argomentazioni, considerato che l’esito dei riscontri incrociati posti in essere dalla Guardia di Finanza portava a concludere proprio che l’appellante esercitasse in concreto un’attività imprenditoriale e che esistesse in capo alla ditta, nella sua titolarità, un certo volume di affari.
Come noto, l’articolo 10 del D.Lgs. 74/2000 prevede la pena della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni per chiunque, “al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari”.
È evidente che nella menzionata documentazione debbano essere ricomprese anche le fatture passive, posto che l’articolo 22, comma 3, del D.P.R. 600/1973 prevede la conservazione obbligatoria non solo delle fatture emesse, ma anche di quelle ricevute.
In ogni caso, la Corte di appello ha ritenuto del tutto irrilevante che la documentazione fosse stata comunque reperita e conseguentemente ricostruito il connesso volume di affari atteso che, come la Cassazione ha già avuto modo di affermare “proprio perché la norma intende assicurare la trasparenza fiscale del contribuente, è irrilevante che delle operazioni non documentate venga effettuata la ricostruzione ab externo, attraverso riscontri incrociati, presso i soggetti economici cui si riferiscono quelle operazioni” (Cass. n. 39711/09 e Cass. n. 3057/08).
Se non si seguisse tale ragionamento, la norma di cui al citato art. 10 “sarebbe sostanzialmente inutiliter data ove si attribuisse alla solerzia degli accertatori ed alla loro capacità di reperire aliunde elementi di prova una sorta di efficacia sanante dell’illecita condotta dell’imprenditore”.
Secondo la Corte di legittimità, “ben difficilmente infatti questa condotta sarebbe sanzionata dal momento che in materia, di regola, in un modo o nell’altro, prima o poi, eventualmente procedendo a controlli incrociati, l’evasione fiscale viene scoperta. Essa per contro, acquista una precisa ragion d’essere anche perché responsabilizza l’imprenditore – allorché si interpreta nel senso che la ricostruzione dei redditi e del volume di affari dell’impresa deve poter avvenire con i documenti che il titolare è tenuto a conservare – escluso pertanto qualsiasi riferimento ad una impossibilità assoluta di procedere a tale ricostruzione” (cit. Cass. n. 39711/2009).
Alla luce di tali argomentazioni e in applicazione del richiamato principio di trasparenza fiscale, la Corte di Lecce non ha potuto fare altro che confermare la declaratoria di colpevolezza dell’appellante, concludendo per il rigetto del ricorso e la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali del grado.
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