La difesa “sostanziale” blocca gli studi di settore
di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365L’argomento “studio di settore” continua a tenere banco, sia in sede di accertamento, sia soprattutto in diverse decisioni della Corte di Cassazione. Deve dirsi che quanto al primo aspetto è stato ormai preannunciato l’utilizzo dello strumento nella direzione della “compliance” e, aggiungiamo, della selezione di coloro che nonostante i ripetuti “inviti” continuano a non adeguare i propri comportamenti, manifestando anomalie sin troppo marcate in termini di elevate non congruità e, specialmente, di incoerenze assolutamente poco credibili (il caso classico è rappresentato dall’indice di rotazione del magazzino praticamente “fermo” per attività con prodotti a rapida deperibilità).
Circa invece i giudicati della Corte di Cassazione, oltre ai principi guida sanciti alla fine del 2009, non può non rimarcarsi la centralità che viene attribuita alla prova difensiva del contribuente, che come è noto può essere prodotta sia in sede di contraddittorio che in seguito direttamente in contenzioso, assumendosi il contribuente, in tale ultimo caso, la responsabilità della propria scelta: infatti, da un lato, l’accertamento risulta legittimo pur se fondato solo sullo studio di settore, posto che nulla è stato obiettato in contraddittorio; dall’altro, sarà l’organo giudicante ad apprezzare liberamente la portata probatoria della tesi difensiva.
Ovviamente le tesi difensive devono essere sostanziali, come rimarcato di recente dalla sentenza n. 18447, depositata in data 21 settembre 2016, in cui l’accertamento da studi di settore è stato ritenuto dai Supremi Giudici non sufficiente posto lo svolgimento, da parte del contribuente, di un’attività di lavoro dipendente a tempo pieno, con dunque scarso tempo residuo da poter dedicare all’attività d’impresa.
La posizione appena sottolineata non è affatto nuova, sia in termini positivi che negativi. Sia sufficiente ricordare, come tesi favorevoli al fisco, anzitutto la sentenza n. 8626 depositata l’11 aprile 2014, con cui la Suprema Corte ha evidenziato come non siano attendibili in fase difensiva semplici riferimenti generici e non contestualizzati (come il richiamo all’esercizio sia di attività all’ingrosso che al dettaglio, la forte concorrenza del settore, la presenza di perdite per il calo fisiologico dei prodotti, eccetera), essendo invece necessari elementi fattuali e concreti. Allo stesso tempo, è necessario che i dati del contribuente siano veritieri. Sul punto, appare interessante richiamare la sentenza n. 16797 del 5 luglio 2013, laddove nel “validare” il risultato degli studi di settore in sede di accertamento, la Corte di Cassazione ha posto l’accento sulla necessità di avere una contabilità non facilmente attaccabile. Nell’ipotesi analizzata i punti di “debolezza” riscontrati nella contabilità del soggetto sottoposto a controllo sono stati “classici”, vale a dire la non veridicità dei finanziamenti dei soci, ritenuti “spropositati” rispetto ai risultati aziendali e alle occorrenze dei medesimi soci, nonché le rimanenze finali (in sostanza trattasi delle voci contabili che spesso si prestano ad interventi strumentali per “adeguare” i risultati reali ad altri a prima vista “accettabili”).
Le motivazioni difensive, dunque, devono essere sostanziali e fondarsi sulla dimostrazione del perché le risultanze dello studio di settore non possono trovare applicazione nel caso specifico. Serve pertanto illustrare le modalità con cui l’attività è stata svolta, la sussistenza di condizioni di marginalità, la presenza di malattie che hanno impedito la frequenza assidua del luogo di lavoro, gli impedimenti oggettivi che hanno condizionato i risultati, come appunto il caso dinanzi richiamato dello svolgimento di un lavoro dipendente parallelo ovvero, circostanza purtroppo al momento particolarmente diffusa, la crisi del settore di appartenenza. Ed in tale direzione sono ormai diverse le prese di posizione della giurisprudenza della Suprema Corte, a partire dalla sentenza n. 27166 del 4 dicembre 2013, dove è affermato come sia provato l’onere difensivo del contribuente che giustifica il mancato adeguamento agli studi di settore documentando la grave crisi finanziaria che ha colpito la sua attività, con tanto di esecuzione forzata delle unità immobiliari in cui la stessa era svolta, a seguito del mancato pagamento delle rate di mutuo.
In definitiva, è lecito affermare che in presenza di elementi concreti la giurisprudenza ha da sempre dimostrato elevata sensibilità. Questa è la direzione migliore per affrontare la tematica degli studi di settore, puntando soprattutto già in sede di contraddittorio obbligatorio all’inversione dell’onere probatorio e al relativo “appesantimento”, costringendo l’Amministrazione finanziaria ad un duplice importante sforzo: superare le tesi difensive e dimostrare l’applicazione dello standard al caso specifico. Esercizio certamente non semplice da realizzare se si hanno elementi sostanziali per dimostrare l’inapplicabilità dello standard al caso concreto del contribuente sottoposto a controllo.
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