È illegittima la cartella priva del tasso di interesse applicato
di Luigi FerrajoliCon la sentenza n. 24933 depositata in data 6 dicembre 2016, la Quinta Sezione Tributaria della Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi del tema relativo alla legittimità della cartella di pagamento relativa alla riscossione di interessi.
In particolare, l’oggetto della controversia riguardava la notifica da parte dell’Agenzia delle Entrate di una cartella di pagamento con la quale erano stati richiesti interessi relativi alla somma dovuta per l’imposta di successione pagata in ritardo dai contribuenti a causa della sospensione della cartella originaria disposta dall’Agenzia.
I ricorrenti, nella propria impugnazione, eccepivano che l’atto impositivo era privo di qualsiasi riferimento al tasso degli interessi applicati per il calcolo delle somme dovute.
La Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il ricorso e la medesima decisione veniva confermata in sede di appello dalla CTR della Lombardia, sul presupposto che i contribuenti non erano stati messi in condizione di ricostruire l’iter logico-giuridico seguito dall’Ufficio.
L’Agenzia delle Entrate decideva di procedere ulteriormente in Cassazione, rilevando come primo motivo di ricorso la violazione di legge in ordine all’articolo 15 D.Lgs. 46/1999 (sospensione amministrativa della riscossione) e all’articolo 7 L. 212/2000 (statuto dei contribuenti).
Nello specifico, l’Ente impositore sosteneva che la cartella era stata sufficientemente motivata, in quanto era stato riportato nella medesima sia il periodo relativamente al quale gli interessi erano dovuti, sia il riferimento al provvedimento di revoca della sospensione della cartella riguardante l’imposta di successione. Secondo l’Agenzia, pertanto, sulla base di tali considerazioni i contribuenti erano stati messi nella condizione di conoscere gli elementi costitutivi della pretesa fiscale.
Secondariamente, l’Ufficio contestava l’illogicità della motivazione, ex articolo 360, comma 1, n. 5. c.p.c., in quanto la CTR non avrebbe considerato che i ricorrenti si trovavano già nelle condizioni di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale; pertanto, nel caso de quo, sarebbe stato sufficiente semplicemente richiamare il provvedimento di revoca della sospensione.
La Suprema Corte, ritenendo che i due motivi di impugnazione riguardassero la medesima questione giuridica, decideva di esaminarli congiuntamente.
In particolare la Corte di Cassazione, riprendendo i principi già enunciati in precedenti pronunce (Cass. n. 26330/2009), ha rilevato la fondatezza di tali eccezioni.
Nello specifico la Corte ha precisato che: “l’obbligo di una congrua, sufficiente ed intelligibile motivazione non può essere riservato ai soli avvisi di accertamenti della tassa (per i quali tali obbligo è ora espressamente sancito dall’articolo 71, comma 2 bis, D.Lgs. 507/1993, come aggiunto dall’articolo 6 D.Lgs. 32/2001), atteso che alla cartella di pagamento devono ritenersi comunque applicabili i principi di ordine generale indicati per ogni provvedimento amministrativo dall’articolo 3 L. 241/1990 (poi recepito, per la materia tributaria, dall’articolo 7 L. 212/2000), ponendosi, una diversa interpretazione, in insanabile contrasto con gli articolo 3 e 24 Cost, tanto più quando tale cartella non sia stata preceduta da un motivato avviso di accertamento”.
Nel caso di specie, la cartella di pagamento, essendo priva dell’indicazione del tasso e del metodo di calcolo degli interessi, ha reso impossibile al contribuente il controllo sulla correttezza del calcolo degli interessi indicato in atti dall’Agenzia delle Entrate.
La Corte ha rilevato, infatti, che i contribuenti erano effettivamente a conoscenza dell’importo dovuto a titolo di tassa di successione, pari alla metà di quella originariamente pretesa dall’Ufficio, nonché del periodo relativo al quale gli interessi erano stati calcolati. Tuttavia, i medesimi non avevano contezza alcuna del tasso di interesse e del metodo di calcolo utilizzato. Per ricostruire il metodo seguito dall’Ufficio, i contribuenti avrebbero dovuto ricercare norme giuridiche estranee all’esposizione seguita dall’Agenzia.
Sulla base, pertanto, di quanto affermato nella pronuncia in esame, la Suprema Corte ha statuito che la cartella di pagamento che riporti in modo poco comprensibile i conteggi degli interessi e il periodo di riferimento è da considerarsi illegittima.
Alla luce di ciò, la Corte di Cassazione con la sentenza in commento ha rigettato il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate e ha condannato quest’ultima a rifondere le spese di lite ai contribuenti.
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