Prodotti propri senza obbligo distinta collocazione nel punto vendita
di Luigi ScappiniIl Ministero dello Sviluppo Economico, con la risoluzione n. 343306 del 2 novembre 2016 analizza nuovamente il tema della vendita diretta di prodotti da parte degli imprenditori agricoli a cui, come noto, sono riconosciute alcune agevolazioni di natura amministrativa.
La norma di riferimento è l’articolo 4, comma 1, D.Lgs. 228/2001, ai sensi del quale “Gli imprenditori agricoli, singoli o associati, iscritti nel registro delle imprese di cui all’articolo 8 della L. 580/1993, possono vendere direttamente al dettaglio, in tutto il territorio della Repubblica, i prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive aziende, osservate le disposizioni vigenti in materia di igiene e sanità”, norma da leggere in diretta connessione con il successivo comma 5 che estende la disciplina richiamata “… anche nel caso di vendita di prodotti derivati, ottenuti a seguito di attività di manipolazione o trasformazione dei prodotti agricoli e zootecnici, finalizzate al completo sfruttamento del ciclo produttivo dell’impresa”.
La norma consente la vendita diretta anche in zone che virtualmente non lo consentirebbero essendo agricole e si attiva a condizione che venga rispettato il requisito di cui al comma 8 dell’articolo 4, ulteriore rispetto alla prevalenza. In particolare, la disposizione da ultimo citata prevede che l’ammontare dei ricavi derivanti dalla vendita di prodotti non provenienti dall’azienda nell’anno solare precedente non debba essere superiore a:
- 160.000 euro per gli imprenditori individuali;
- 4 milioni di euro per le società.
Viene quindi concessa la possibilità di vendere beni di terzi a condizione che rientrino nel medesimo comparto merceologico dei prodotti propri e che siano non prevalenti, parametro quest’ultimo misurabile alternativamente in termini quantitativi, se trattasi di beni omogenei (ad esempio, mele con mele, pere con pere), ovvero in termini valoriali nella diversa ipotesi di beni disomogenei (ad esempio, mele con fragole, pere con uva).
Il MiSE con la risoluzione n. 343306 del novembre 2016 affronta proprio questa tematica con specifico riferimento alle modalità di esposizione dei beni.
Al riguardo, infatti, potevano sorgere dubbi in merito alla necessità di posizionare separatamente, in ragione della natura propria o derivata i prodotti o, in alternativa, di identificarli mediante cartelli o altri mezzi atti ad individuarne la diversa provenienza. Tale esigenza avrebbe potuto giustificarsi sia con il fine di favorire eventuali controlli sul principio della prevalenza della vendita dei prodotti propri, sia con l’obiettivo di agevolare una pronta distinzione nella percezione del cliente di quale sia l’origine dei prodotti posti in vendita.
La risposta, tuttavia, non può che essere negativa sulla base, innanzitutto del dato normativo nazionale e comunitario (in tal senso il riferimento deve essere fatto al Regolamento 1308/2013/CE, recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli) che, nel contesto della disciplina commerciale, non dettano regole in tal senso.
Inoltre, non si rende applicabile nemmeno l’articolo 21, D.Lgs. 206/2005, con cui vengono individuati termini e modalità che delimitano una pratica commerciale come ingannevole, tra i quali vi è anche l’ipotesi per cui le informazioni sui prodotti venduti, seppur formalmente corrette, inducano o possano indurre in errore il consumatore medio in merito alle caratteristiche del prodotto (tra le quali figura anche l’origine geografica e commerciale. Infatti, la norma si riferisce a eventuali informazioni non corrette e non anche alle modalità di “presentazione” del prodotto da intendersi come esposizione, non rinvenendo tra le casistiche la mancata esposizione in scaffalature e attrezzature separate per i prodotti agricoli non provenienti dal proprio fondo.
Altro concetto è il fare riferimento in modo generico alla provenienza propria dei prodotti senza poi, nei singoli scaffali, ad esempio, procedere a una differenziazione dell’origine.
Alla luce di tali considerazioni il Ministero conclude affermando come, pur condividendo la necessità di un’informazione chiara e trasparente anche in riferimento alla provenienza dei prodotti ceduti, tale fine non deve sfociare nell’imporre obblighi rigidi e soprattutto onerosi per determinati imprenditori.