9 Gennaio 2018

Derivazioni “difficili”: il punto sulla giurisprudenza

di Massimiliano Tasini
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Nel maggio 1994 l’allora Ministero delle Finanze, in risposta a due quesiti, ebbe modo di precisare che gli Uffici finanziari non hanno titolo per sindacare le classificazioni e le valutazioni di bilancio, salvo che il bilancio non sia impugnato e da tale impugnazione emerga materia imponibile: nel qual caso, “non può escludersi” l’emissione di un atto impositivo (C.M. 73/1994, domande 3.5 e 3.13).

Fu poi confermato che gli Uffici finanziari non avevano titolo per impugnare il bilancio.

Questa risposta non è mai stata ufficialmente smentita. Naturalmente, è una risposta che pesa come un macigno, e dunque oggetto di vibranti discussioni.

La stessa Amministrazione finanziaria ha mostrato diffidenza, seppure in modo non sistemico: ad esempio la circolare AdE 25/E/2007 ha affermato che gli immobili “merce” non rientrano nel test di operatività delle cd. “società di comodo” ma alla condizione che la classificazione tra gli immobili merce “sia improntata a corretti principi contabili”; parimenti, la circolare AdE 19/E/2009 ha a più riprese evidenziato la necessità di adottare corretti principi contabili ai fini del controllo sull’applicazione dell’articolo 96 Tuir.

Questi “accenni” sono sintomatici ma non decisivi, e comunque sembrerebbero non trovare supporto normativo.

Basterà osservare, a mo’ di esempio, che nel 2008, abrogato il Quadro EC, fu necessaria una espressa previsione per attribuire al Fisco il potere di rettificare gli ammortamenti spesati in misura maggiore di quella imputata nei bilanci fino al 2007, salvoché non sussistessero ragioni idonee a giustificare l’incremento del costo, adeguatamente espresse in nota integrativa; così come varrà bene osservare che solo l’IRAP consente all’Ufficio di disapplicare le appostazioni contrarie ai principi contabili, proprio in virtù di una espressa previsione normativa, assente nel comparto delle imposte dirette.

Peraltro, l’articolo 37 bis D.P.R. 600/1973 consentiva, fino alla sua abrogazione – operata con il decreto sulla c.d. “certezza del diritto” (D.Lgs. 128/2015) – di disattendere le classificazioni e le valutazioni di bilancio, ma ricorrendo i presupposti contemplati dalla disposizione, e comunque in chiave antielusiva, e non evasiva (concetti ora chiaramente incompatibili, giusta la previsione dell’articolo 10 bis dello Statuto dei Diritti del Contribuente).

Sembrerebbe quindi confermato che il Fisco debba operare nella parte “bassa”, cioè dando “per buono” il contenuto del bilancio di esercizio.

Naturalmente, l’affermazione assume una valenza ancora più dirompente nell’era attuale, in cui siamo tutti “IAS-dipendenti”, ed in qualche modo il potere dell’Amministrazione Finanziaria sarebbe a maggior ragione limitato.

Ma non è questo il pensiero della Suprema Corte, Quinta Sezione Tributaria.

La sentenza 24939/2013 afferma che il Fisco non può sostenere l’obbligo dell’impresa di capitalizzare costi in quanto dallo stesso ritenuti a carattere pluriennale; nondimeno, in motivazione è chiaramente espresso il principio che la discrezionalità di cui dispone l’amministratore nel predisporre il progetto di bilancio è “tecnica” e non “soggettiva”.

La sentenza però soprattutto rileva – paragrafo 3.8 – che “le risultanze del bilancio civilistico sono destinate a valere anche ai fini delle determinazioni fiscali, a meno che non si dimostri che le stesse contrastano con i principi di corretta e veritiera rappresentazione della situazione patrimoniale ed economica dell’impresa stabiliti dal codice civile … quando vi è un bilancio approvato, l’amministrazione finanziaria può svolgere una verifica relativamente alla allocazione di alcune poste al fine di garantire non solo la veridicità e la correttezza dei risultati contabili, ma anche la più ampia trasparenza dei dati di bilancio che a quei risultati conducono, precisando che tale verifica può essere attuata con lo strumento dell’accertamento, senza la necessità di utilizzare la normativa civilistica sull’impugnazione del bilancio”.

A conclusioni ancora più nette perviene la successiva sentenza 22016/2014, secondo la quale il cambio della aliquota di ammortamento applicata – prima ridotta del 50% di quella tabellare, poi intera – senza adeguata spiegazione in nota integrativa in seno al bilancio di esercizio determina la nullità della delibera di approvazione del bilancio e di riflesso l’indeducibilità della quota maggiorata.

Sempre secondo la Suprema Corte (sentenza 25690/2016), poi, in ipotesi di spese promozionali capitalizzate e dedotte per quote, laddove siano stati violati i principi contabili – nella specie il n. 24 – la quota spesata negli esercizi è indeducibile.

Nel senso suesposto è pure la giurisprudenza di merito: basterà qui richiamare CTR Campania sentenza n. 8511 del 16/10/2017, secondo la quale per effetto del principio di derivazione fissato dall’articolo 83 Tuir l’esatta imputazione a bilancio di un componente reddituale spiega effetti non solo sul piano civilistico, ma anche sul piano fiscale.

Forse sarà il caso di riconsiderare i modelli organizzativi dei nostri Studi, dedicando maggior tempo e cura alla redazione dei bilanci di esercizio.

 

Il bilancio post riforma e la nuova disciplina fiscale