La tassazione del trust corre sull’ottovolante
di Sergio PellegrinoQuando il tema è quello della tassazione indiretta dei trust, non si fa a tempo a “parlar male” di una sentenza (si veda il mio contributo del 24 maggio scorso “Tassazione del trust: errare è umano, perseverare è diabolico”) che ne arriva un’altra a prendersi la scena.
In questo caso, però, il peso della pronuncia è decisamente diverso, essendo la sentenza 13626/18, depositata in cancelleria il 30 maggio, emanata dalla Sezione Tributaria della Corte di Cassazione.
I giudici della Suprema Corte hanno esaminato il caso di una società per azioni che nel 2009 aveva istituito un trust di garanzia, disponendo in trust alcune sue quote di partecipazione in società a responsabilità limitata, affidando al trustee il compito di alienarle e provvedere proporzionalmente al pagamento della propria esposizione debitoria.
Il notaio rogante aveva applicato all’atto dispositivo l’imposta di registro in misura fissa, ma l’ufficio gli aveva successivamente notificato un avviso di liquidazione, richiedendo il pagamento dell’imposta di successione e donazione con l’aliquota dell’8%.
Sia in primo che secondo grado il notaio era risultato soccombente e conseguentemente aveva proposto ricorso per cassazione, eccependo, fra i diversi motivi, quello relativo al fatto che “la CTR abbia erroneamente ritenuto che il trust sia un istituto necessariamente ricompreso tra i vincoli di destinazione, con conseguente applicazione dell’imposta di donazione indipendentemente dall’analisi della sua natura e dei suoi effetti giuridici”.
La pronuncia evidenzia come la stessa Corte di Cassazione abbia espresso orientamenti contrastanti circa il trattamento da riservare dal punto di vista dell’imposizione indiretta alla disposizione di beni in trust.
Da un lato, una serie di ordinanze del 2015 e una sentenza del 2016 della sesta Sezione della Cassazione hanno sostenuto l’applicazione di una “nuova” imposta, quella appunto sui vincoli di destinazione, “accomunata solo per assonanza alla gratuità delle attribuzioni liberali, altrimenti gratuite e successorie”.
I giudici richiamano in particolare l’ordinanza n. 3737/2015, nella quale era stato affrontato un caso relativo alla costituzione e alla dotazione patrimoniale di un trust di garanzia, arrivando alla conclusione che si dovesse applicare l’imposta sui vincoli di destinazione con l’aliquota dell’8%.
Dall’altro, la posizione espressa dalla quinta Sezione della Cassazione nella sentenza 21614/2016, in base alla quale non esisterebbe alcuna “nuova” imposta, essendosi limitato il legislatore nel 2006 a reintrodurre l’imposta sulle successioni e sulle donazioni, alla quale per ulteriore espressa disposizione debbono soggiacere anche i vincoli di destinazione: il presupposto dell’imposta rimane, secondo questa visione, quello stabilito dall’articolo 1 del D.Lgs. 346/1990, vale a dire il reale trasferimento di beni o diritti e quindi il reale arricchimento dei beneficiari.
Nella pronuncia in esame, il collegio giudicante indica di condividere questo secondo orientamento, ma poi, nel “tirare le somme”, a mio avviso ne stravolge le logiche, ritenendo sussistere il presupposto impositivo in quanto “nella specie i contraenti vollero il reale trasferimento delle quote e dei relativi diritti al trustee, sia pure ai fini della liquidazione e quindi il reale arricchimento del beneficiario”.
Si fa in realtà una gran confusione, perché, in un trust di garanzia come quello esaminato dai giudici, non è chiaro chi si arricchisca: certamente non il trustee, ma neppure i creditori, destinati a ricevere soltanto in parte quello che sarebbe loro dovuto (e quindi, piuttosto, destinati a “impoverirsi”, almeno parzialmente).
Non può neppure essere dirimente, ai fini della diversa conclusione “sostanziale” raggiunta rispetto alla sentenza 21614/2016, il fatto che quest’ultima avesse ad oggetto un trust autodichiarato, e quindi non vi fosse stato il trasferimento dei beni ad un trustee “terzo”.
Va comunque sottolineato come questa pronuncia, allineandosi alla posizione espressa dalla prassi dell’Agenzia, sebbene con un percorso logico che non convince, rappresenti, indubbiamente, una battuta d’arresto per i trust non liberali, che ne escono evidentemente penalizzati: ed è un peccato, visto la valenza che potrebbero assumere se strutturati in modo corretto.
Diverso, invece, il discorso per i trust liberali, in primis quelli familiari, in relazione ai quali i meccanismi di funzionamento dell’imposta di successione e donazione rendono nella maggior parte dei casi “conveniente” seguire le tesi dell’Agenzia, anche per chi non è convinto della loro correttezza.
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