Operazioni di business restructuring e dissimulata cessione d’azienda
di Domenico SantoroGianluca CristoforiSempre più frequentemente, in occasione di fenomeni di delocalizzazione produttiva o di processi d’integrazione “a monte” e/o “a valle” lungo la catena del valore, realizzati mediante la costituzione di società in altri Stati, la prassi accertativa dell’Amministrazione finanziaria è giunta a riqualificare singole transazioni intervenute tra imprese associate in asserite operazioni volte a dissimulare vere e proprie cessioni di rami d’azienda.
Ciò, non solo ai fini della disciplina in materia di prezzi di trasferimento infragruppo prevista dall’articolo 110, comma 7, Tuir, trattandosi di asserite operazioni di business restructuring nell’accezione di cui al capitolo IX delle “Linee Guida dell’OCSE sui prezzi di trasferimento” (GL-OCSE), bensì anche ai fini dell’imposizione indiretta, con conseguente applicazione dell’imposta di registro in misura proporzionale.
Tali riqualificazioni si fondano sul convincimento che le singole transazioni intervenute tra l’impresa residente in Italia e l’impresa non residente (si pensi, a mero titolo esemplificativo, alla cessione di beni strumentali e/o di materie prime, ovvero alla prestazione di servizi di formazione del personale in loco, nonché alla cessione a titolo di proprietà o la concessione in uso di assets immateriali, come la lista clienti o il know how produttivo) non siano da considerare singolarmente, bensì nella loro dimensione complessiva, sul presupposto che una pluralità di transazioni sarebbe talvolta idonea a dissimulare una vera e propria cessione di ramo d’azienda, secondo lo schema della cd. “cessione spezzatino”.
Tralasciando in questa sede qualsiasi considerazione in ordine alle condizioni al ricorrere delle quali possa dirsi riscontrata una business restructuring, nell’accezione di cui al citato capitolo IX delle GL-OCSE (giova soltanto rammentare che il paragrafo 9.1 delle GL-OCSE precisa che “l’espressione riorganizzazione aziendale si riferisce alla riorganizzazione transnazionale delle relazioni commerciali o finanziarie tra imprese associate, inclusa la risoluzione o la rinegoziazione sostanziale di accordi già esistenti”), preme focalizzare l’attenzione sulla nozione di azienda (o ramo di essa), per provare a individuare una linea di demarcazione tra ciò che possa ritenersi cessione di singoli assets e ciò che, invece, possa legittimamente integrare una cessione di un vero e proprio compendio aziendale.
In merito, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1955 del 04.02.2015, riferibile a un caso di cd. “cessione spezzatino”, ha esplicitato i criteri che devono essere seguiti dall’interprete per la riqualificazione di un insieme di cessioni, unitariamente considerate, in una dissimulata cessione d’azienda (o ramo di essa), precisando che “è nella organizzazione del complesso dei beni che va riconosciuta la componente immateriale caratteristica dell’azienda, o di un suo ramo, atteso che i beni, singolarmente considerati, prospettano solo la loro specifica essenza, ma la loro “organizzazione”, finalizzata alla produzione, conferisce al complesso dei beni il carattere di complementarietà necessario perché possa attribuirsi ad esso la definizione di azienda”. In particolare, “Ai fini di configurare la cessione di azienda, non è necessario il trasferimento delle attività svolte dalla cedente alla cessionaria, ma è sufficiente che sia trasferita, come nel caso di specie, con riferimento all’attività produttiva, un’unità organizzativa autonoma”.
Con specifico riferimento alle operazioni di business restructuring, la CTP Varese, sentenza n.335/16 del 24.05.2016, in relazione a una contestazione volta a riqualificare in termini di cessione d’azienda la ristrutturazione aziendale di una società italiana avvenuta con la dismissione dell’attività in Italia nell’arco di 5 anni, la vendita dei beni materiali e immateriali alla nuova entità in Polonia, così da attrarre a imposizione il valore dell’avviamento inespresso “come si farebbe nelle transazioni fra indipendenti”, ha precisato che “le ricorrenti hanno dimostrato che la società polacca non ha acquistato se non dei macchinari e le concessioni di brevetti per la produzione di beni e che non ha mai avuto accesso diretto alla clientela, dal momento che la distribuzione avveniva e avviene attraverso la […] italiana, come risulta dal contratto del 2006. Come si può parlare di avviamento in questo caso? Inoltre, la società polacca nemmeno può vendere a terzi indipendenti, essendo legata alla produzione esclusivamente a favore della società italiana”.
Si consideri, inoltre, che la mera spoliazione di assets da parte di un’impresa residente in Italia a beneficio di un’entità associata non corrisponde necessariamente a un’operazione di business restructuring, in quanto occorre dimostrare che, nel caso di specie, sia riscontrabile anche una effettiva mutazione del profilo funzionale in termini di investimenti, rischi assunti e funzioni esercitate nell’esercizio dell’attività d’impresa.
Più di recente, la CTR Lombardia, sentenza n.2379/2018 del 24.05.2018, in merito a una contestazione dell’Amministrazione finanziaria volta a riqualificare l’acquisto di una lista clienti in termini di cessione di ramo d’azienda, in quanto accompagnata anche dal trasferimento di due dipendenti, ha ritenuto non configurabile nel caso di specie la cessione di un’azienda, in quanto “i due dipendenti non risultano disporre di alcun potere di rappresentanza della società contribuente. Pertanto, anche sotto questo profilo non si manifesta alcuna capacità produttiva di reddito di impresa in grado di connotare il loro passaggio alle dipendenze della […], unitamente alla lista di clienti acquistata dalla consociata estera, come trasferimento di ramo d’azienda”.
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