6 Settembre 2018

Operazioni soggettivamente inesistenti e consapevolezza dell’acquirente

di Marco Bargagli
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Come noto, la frode fiscale mediante l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti costituisce un pericoloso sistema di evasione fiscale che sottrae ingenti risorse erariali creando, in capo all’acquirente, un’indebita detrazione Iva.

In tale contesto, il cessionario acquista beni o servizi da parte di società denominate “cartiere”, soggetti economici che non hanno dipendenti, non hanno struttura operativa, non versano le imposte dovute, interponendosi nella transazione economica al solo scopo di creare un credito Iva inesistente.

In merito, il nostro ordinamento giuridico prevede l’applicazione di specifiche sanzioni che colpiscono sia l’emittente della fattura falsa, che il successivo utilizzatore.

Più in particolare, la normativa di riferimento sanziona con la reclusione:

  • da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti indica, in una delle dichiarazioni relative a dette imposte, elementi passivi fittizi che consentono di ridurre la base imponibile; sanzione che grava sul soggetto che annota in contabilità e riporta in dichiarazione le fatture per operazioni inesistenti (articolo 2 D.lgs. 74/2000);
  • da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti; sanzione che grava sul soggetto che emette fatture per operazioni inesistenti (articolo 8 D.lgs. 74/2000);
  • da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 D.lgs. 241/1997, crediti Iva inesistenti per un importo annuo superiore a 50 mila euro; sanzione che grava sul soggetto che utilizza crediti inesistenti maturati a fronte dell’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti (articolo 10-quaterlgs. 74/2000);

Inoltre, ai sensi dell’articolo 21, comma 7, D.P.R. 633/1972, se il cedente o prestatore emette fattura per operazioni inesistenti, ovvero se indica nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative in misura superiore a quella reale, l’imposta é dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura.

Sul punto si precisa che, come per le imposte dirette, anche ai fini Iva l’inesistenza della fattura può essere:

  • oggettiva, in quanto la stessa documenti operazioni in realtà mai avvenute, in tutto o in parte,
  • ovvero soggettiva, qualora l’operazione documentata sia in realtà intercorsa fra soggetti diversi da quelli risultanti dalla fattura medesima (Cfr. circolare 1/2008 del Comando Generale della Guardia di Finanza, volume 2, pagina n. 147).

Dopo avere delineato l’ambito giuridico di riferimento, occorre formulare alcune considerazioni in tema di riparto dell’onere della prova tra Fisco e contribuente, nella particolare ipotesi di una frode fiscale perpetrata mediante l’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti.

In merito, è recentemente intervenuta la Corte di cassazione, sezione 5^ civile, con l’Ordinanza n. 17161/18 del 28.06.2018.

Nello specifico, il contenzioso risolto in sede di legittimità derivava da un controllo fiscale eseguito nei confronti di una società esercente il commercio di autoveicoli, in esito al quale venivano rettificate le dichiarazioni presentate dal contribuente, a fronte di indebite detrazioni Iva derivanti dall’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti.

Il giudice di merito accoglieva il ricorso del contribuente, il quale aveva dedotto l’effettiva esistenza degli importatori e delle operazioni di compravendita delle autovetture dall’estero nonché l’inconsapevolezza, da parte del cessionario, di prendere parte ad una frode fiscale.

Di contro, gli ermellini hanno accolto la tesi proposta da parte dell’Agenzia delle entrate, confermando la legittimità della pretesa erariale.

La suprema Corte ha chiarito che l’esercizio “fraudolento” del diritto di detrazione è riscontrabile qualora, pur sussistendo tutti i presupposti sostanziali del suddetto diritto e al cospetto delle condizioni formali per il suo esercizio si configuri l’evasione fiscale di colui che invochi il diritto di detrazione, oppure del suo fornitore diretto (i.e. la società cartiera), oppure ancora di uno dei fornitori nella catena delle cessioni o delle prestazioni.

In buona sostanza, sulla scorta di un orientamento espresso da parte della giurisprudenza comunitaria, l’acquirente ha l’onere di verificare che l’emittente della fattura correlata ai beni e ai servizi “ne disponesse e fosse in grado di fornirli e che abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’Iva, o che disponga dei relativi documenti”.

Detto obbligo di verifica, proseguono i supremi giudici di legittimità, si prospetta in capo al cessionario a fronte di determinati indizi che gli consentano di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasione, allegati e provati dall’amministrazione in base ad elementi oggettivi, anche in via presuntiva.

In merito, nell’ambito dell’accertamento fiscale erano emerse numerose circostanze indiziarie del fatto che i cedenti fossero mere cartiere: le società interposte non solo non avevano presentato la prescritta dichiarazione Iva, versato l’imposta e presentato dichiarazione dei redditi per anni, ma mancavano anche di una struttura operativa presso la sede, non avevano dipendenti e inoltre la documentazione contabile era introvabile.

In definitiva, in linea con il costante orientamento espresso dalla recente giurisprudenza di legittimità, in caso di operazioni soggettivamente inesistenti l’Amministrazione ha l’onere di provare solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ossia la sua non operatività, oltre che la consapevolezza del destinatario di essere parte di un’evasione, anche in via presuntiva, in quanto egli avrebbe dovuto conoscere l’inesistenza del contraente, dovendo poi provare il contribuente di aver rispettato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo ragionevolezza e proporzionalità, essendo irrilevante la regolare contabilità, la regolarità dei pagamenti, e anche la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi”.

La gestione delle attività doganali