6 Settembre 2018

Linea “morbida” sui motivi specifici dell’impugnazione nell’appello

di Francesco Rizzi
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Continua la “linea morbida” della Cassazione sull’interpretazione degli articoli 53 D.Lgs. 546/92 (secondo cui la mancanza o l’assoluta incertezza nel ricorso in appello dei “motivi specifici dell’impugnazione” costituisce una causa d’inammissibilità) e 342, comma 1, c.p.c. (in base al quale “… La motivazione dell’appello deve contenere, a pena di inammissibilità: 1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata. ….”).

Di fatti, secondo quanto affermato dalla Corte di Cassazione nella recente ordinanza n. 18632 del 13.07.2018 Costituisce, invero, orientamento prevalente di questa Corte, che il Collegio condivide e, di recente, ribadito da Cassazione n. 7369 del 22/03/2017, che “nel processo tributario, ove l’amministrazione finanziaria si limiti a ribadire e riproporre in appello le stesse ragioni ed argomentazioni poste a sostegno della legittimità del proprio operato, come già dedotto in primo grado, in quanto considerate dalla stessa idonee a sostenere la legittimità dell’avviso di accertamento annullato, è da ritenersi assolto l’onere d’impugnazione specifica previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, articolo  53” e, ancora, che “in tema di contenzioso tributario, la mancanza o l’assoluta incertezza dei motivi specifici dell’impugnazione, le quali, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, articolo 53, comma 1, determinano l’inammissibilità  del ricorso  in  appellonon  sono  ravvisabili  qualora  il  gravame,  benché formulato in modo sintetico, contenga una motivazione interpretabile in modo inequivoco, potendo gli elementi di specificità dei motivi essere ricavati, anche per implicito, dall’intero atto di impugnazione  considerato  nel  suo complesso,  comprese  le  premesse  in  fatto,  la  parte  espositiva  e  le conclusioni” (v. Cass. n. 9083 del 07/04/2017; n. 20379 del 24/08/2017)”.

L’orientamento confermato nell’ordinanza in commento amplia significativamente, fin quasi a vanificarle, le conclusioni ermeneutiche raggiunte dalle Sezioni Unite della medesima Corte su tali questioni.

Con la sentenza n. 27199 del 16.11.2017, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione avevano infatti composto i contrasti giurisprudenziali sorti in merito all’esegesi della nuova grammatica dell’articolo 342 c.p.c. (ma, trattandosi di norma analoga, detta esegesi può ben essere riferita anche all’articolo 53 D.Lgs. 546/92), i quali, in estrema sintesi, potevano riassumersi in due tesi:

  • una, più “rigorosa”, secondo cui i succitati precetti andavano interpretati nel senso che l’appello doveva contenere, a pena d’inammissibilità, delle specifiche censure alla ratio decidendi dei primi giudici e solo le eccezioni non considerate nella sentenza di primo grado potevano essere semplicemente riproposte;
  • un’altra, più “morbida”, secondo cui, anche in difetto di specifiche censure su quanto statuito dai primi giudici nella sentenza, non poteva porsi alcuna preclusione legata alla “forma” dell’appello e pertanto, ai fini dell’ammissibilità, sarebbe stato bastevole che il ricorso in appello fosse stato scritto in modo tale da far comprendere al giudice di seconde cure il contenuto delle censure.

Orbene, le Sezioni Unite avevano risolto il contrasto statuendo i seguenti principi:

  • Quello che viene richiestoè che la parte appellante ponga il giudice superiore in condizione di comprendere con chiarezza qual è il contenuto della censura proposta, dimostrando di aver compreso le ragioni del primo giudice e indicando il perché queste siano censurabili. Tutto ciò, inoltre, senza che all’appellante sia richiesto il rispetto di particolari forme sacramentali o comunque vincolate”;
  • l’impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. Resta tuttavia escluso,che l’atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado”.

L’insegnamento delle Sezioni Unite andava quindi nella direzione di confermare l’esigenza di esporre le specifiche censure al percorso logico-giuridico seguito dal giudice di prime cure, pur “attenuando” tale criterio attraverso la declaratoria della libertà della forma e la valorizzazione dello scopo dell’appello (scopo consistente nel porre il giudice del gravame in condizione di comprendere con chiarezza il contenuto delle censure proposte dall’appellante).

Pertanto, l’orientamento confermato dalla sopra citata Ordinanza n. 18632 del 13.07.2018 pare ampliare eccessivamente il perimetro applicativo dei principi di diritto espressi dalle Sezioni Unite, fino addirittura a vanificarli.

Ammettendo di fatto la validità di un atto di appello redatto anche attraverso un mero “copia e incolla” delle difese esposte in primo grado dalla parte soccombente e riconoscendo quindi la validità di un atto del tutto scevro da ogni riferimento a quanto statuito dal primo giudice, la suddetta ordinanza estende senza alcun limite l’“attenuazione” già operata dalle Sezioni Unite.

Di fatti, sebbene per un verso potrebbe essere condivisibile che gli elementi di specificità dei motivi possano essere ricavati, anche per implicito, dall’intero atto di impugnazione considerato nel suo complesso (premesse, parte espositiva e conclusioni), per altro verso deve pur considerarsi che i motivi specifici dell’impugnazione assolvono la funzione di delimitare l’ambito cognitorio del giudice di appello e, per conseguenza, consentono al giudice di delineare sia l’oggetto che il perimetro del riesame. La loro sussistenza o meno non può dunque essere indagata con leggerezza.

Anche per tale ragione, nell’enunciazione del principio di diritto, le Sezioni Unite, pur valorizzando la libertà della forma e l’importanza del raggiungimento dello scopo dell’atto di appello, hanno messo in evidenza l’esigenza che l’impugnazione contenga “una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata”.

Secondo tali principi, dunque, anche un mero “copia e incolla” delle difese del primo grado, per essere ammissibile, dovrebbe essere pur sempre idoneo a far comprendere le contestazioni mosse alla sentenza di primo grado e quindi, seppur indirettamente, idoneo a far capire le censure volte a incrinare il fondamento logico-giuridico della sentenza.

Tale criterio, tuttavia, non sembra emergere dall’ordinanza in esame, la quale pare ammettere “a prescindere” qualsiasi forma di riproposizione delle difese, con ricadute negative in termini di interpretazione delle regole processuali.

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