Dividendi a soggetti esteri: onere probatorio a carico del contribuente
di Marco BargagliNel panorama tributario internazionale, si possono verificare fenomeni di pianificazione fiscale aggressiva, riconducibili al pagamento verso l’estero di particolari flussi reddituali (es. interessi passivi, royalties, dividendi), attuati mediante l’interposizione di mere conduit company con il solo scopo di veicolare i flussi di reddito dal Paese della fonte (es. l’Italia) verso il beneficiario effettivo, attraverso un percorso che consenta lo sfruttamento di condizioni fiscali più favorevoli.
Tali fattispecie sono prese in considerazione anche dai documenti di prassi (cfr. Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali, circolare 1/2018 del Comando Generale della Guardia di Finanza – volume III – parte V – capitolo 11 “Il contrasto all’evasione e alle frodi fiscali di rilievo internazionale”, pag. 333 e ss.), che hanno fornito una precisa definizione delle singole ipotesi elusive di seguito evidenziate:
- il “treaty shopping”, mediante il quale si tende a sfruttare indebitamente un certo regime vantaggioso contenuto in una o più Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, soprattutto attraverso l’artificiosa localizzazione di una struttura economica (c.d. conduit company) in uno dei Paesi aderenti alla Convenzione, affinché detta struttura diventi funzionale alla fruizione delle agevolazioni previste dal Trattato internazionale, altrimenti non accessibili;
- il “directive shopping”, che si realizza quando un’entità residente in uno Stato non appartenente all’UE interpone in uno Stato membro, con il quale – di norma – lo Stato in cui risiede ha stipulato una convenzione contro le doppie imposizioni ritenuta favorevole, un’altra entità, al solo scopo di beneficiare, indebitamente, del regime fiscale previsto dalla disciplina dell’Unione Europea;
- il “rule shopping”, che consiste nella ricerca, all’interno di una Convenzione internazionale, della disposizione che comporta il minor prelievo fiscale, adeguando ad essa, quanto meno da un punto di vista formale, le operazioni economiche che si intendono porre in essere.
Ciò posto, per contrastare le frodi fiscali internazionali e, più in generale, l’abuso del diritto, il nostro ordinamento giuridico si è dotato di particolari disposizioni antielusive che, a determinate condizioni, traslano l’onere della prova in capo al contribuente.
Con particolare riferimento al pagamento di dividendi da parte di un soggetto italiano nei confronti di un soggetto non residente, sino all’anno 2015 era stata prevista una disposizione antielusiva specifica (ex articolo 27-bis, comma 5, D.P.R. 600/1973), la quale disponeva che quando la società partecipante localizzata in ambito UE era controllata direttamente o indirettamente da uno o più soggetti non residenti in uno degli Stati dell’Unione europea, il regime di esonero dalla ritenuta a titolo d’imposta si applicava a condizione che la società comunitaria avesse dimostrato di non detenere la partecipazione allo scopo esclusivo o principale di beneficiare del regime madre-figlia.
Quindi, l’onere della prova rimaneva a carico del soggetto estero che percepiva i dividendi, il quale doveva fornire le valide ragioni economiche riferite o riconducibili alla detenzione della partecipazione nella società figlia italiana.
Sul punto il legislatore ha recentemente introdotto importanti novità, modificando il precedente contesto normativo e valutando concretamente le operazioni poste in essere in chiave antielusiva.
Nello specifico, con riferimento alle remunerazioni corrisposte dal 1° gennaio 2016, il citato articolo 27-bis, comma 5, D.P.R. 600/1973 è stato sostituito dall’articolo 26, comma 2), lett. b), L. 122/2016.
Per effetto delle citate modifiche normative, operate in attuazione della Direttiva comunitaria n. 2015/121, le disposizioni antielusive in tema di dividendi sono attuate dall’ordinamento nazionale mediante l’applicazione dell’articolo 10-bis L. 212/2000 che, come noto, regola la nuova disciplina dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale.
Sempre in tema di potenziali profili elusivi in tema di pagamento di dividendi, si è recentemente espressa la CTR Lombardia, sezione 18, con la sentenza n. 3001 del 06.06.2018.
Il giudice tributario, accogliendo il ricorso del contribuente, ha rilevato che eventuali clausole antielusive devono essere provate da parte dell’Amministrazione finanziaria con argomenti convincenti e prove idonee anche qualora, come nel caso della normativa sopra illustrata, l’ordinamento giuridico “obblighi il contribuente” a fornire le valide ragioni economiche delle operazioni poste in essere (facendo quindi sorgere una presunzione legale relativa a carico del soggetto passivo).
In particolare, il giudice di merito ha sottolineato che il contribuente ha concretamente dimostrato come i dividendi provenienti dall’Italia non sarebbero in alcun caso potuti confluire in capo alla società controllanti in Stati o territori extra – UE (sia in una società avente sede alle Antille, sia in una società avente sede a Singapore).
In buona sostanza, contrariamente a quanto sostenuto dall’Ufficio finanziario, risulterebbe del tutto irragionevole escludere l’applicazione del regime agevolato previsto dalla normativa in questione pur a fronte della dimostrazione, in relazione al caso specifico, dell’assenza di qualsivoglia utilizzazione abusiva dello stesso.
Inoltre, per l’anno considerato e per quelli successivi, il soggetto estero che ha percepito gli utili non ha proceduto ad alcuna distribuzione dei propri dividendi (rectius non ha effettuato alcuna retrocessione dei redditi) in favore delle proprie controllanti, “di modo che venga materialmente meno la possibilità di qualificare questa società “madre” come mero soggetto interposto, non avendo la stessa svolto il ruolo principe per cui tale genere di soggetti verrebbero creati, ossia la ripetizione di quanto ricevuto da un primo soggetto in favore del soggetto effettivamente destinatario della somma”.
Infatti, nel corso del giudizio è stato dimostrato che i dividendi della società italiana sono stati impiegati per ripagare un debito che la madre europea aveva nei confronti di una propria consociata austriaca.
In definitiva, ha concluso il giudice, “oltre alla dimensione fattuale, l’illegittimità dell’avviso è dimostrata, una volta per tutte, dalle argomentazioni e dalla documentazione prodotte dall’attuale appellata volta a sostenere l’effettiva operatività delle società controllanti europee, che dunque non possono considerarsi, a differenza di quanto sostenuto dall’ufficio, mere holdings statiche. Ciò posto, dunque, non vengono meno solo i presupposti meramente fattuali, ma anche quelli individuati dalla norma, ai fini dell’applicazione della clausola anti-abuso data dall’articolo 27-bis, comma 5, D.P.R. n. 600/1973”.
In buona sostanza, la ulteriore documentazione prodotta in giudizio è stata ritenuta idonea a dimostrare che la casa madre europea svolgeva un’effettiva attività di gestione delle partecipazioni, effettuando acquisti e cessioni di quote, nonché concessioni di finanziamenti, così da conseguire consistenti ricavi sull’attività di holding, oltre ad aver conseguito perdite in relazione alla medesima attività, sufficienti a dimostrare l’effettiva operatività del soggetto.
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