Limiti agli effetti del giudicato penale nel processo tributario
di Luigi FerrajoliUno degli aspetti più interessanti e dibattuti nel nostro ordinamento consiste nell’efficacia riconosciuta al giudicato penale all’interno di un processo tributario.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17619 del 05.07.2018, ha fornito una risposta su cui pare opportuno soffermarsi.
Nel caso di specie, avente per oggetto la contestazione di fatture per operazioni inesistenti, a seguito di atto di impugnazione in sede tributaria promosso dalla società contribuente, la CTR aveva motivato il rigetto dell’appello evidenziando, in primis, che le sentenze di proscioglimento o di assoluzione in sede penale “non possono avere pregio né in questo contenzioso in particolare, né nel processo tributario, in generale“. Si osservi, sotto tale profilo, che le risultanze dei procedimenti penali avevano escluso qualsiasi responsabilità dei soggetti coinvolti per i medesimi fatti.
La Suprema Corte, nell’esaminare i motivi di doglianza, ha innanzitutto premesso che, di regola, la fattura costituisce titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’Iva e alla deducibilità dei costi, per cui spetta all’Ufficio dimostrare il difetto delle condizioni per l’insorgenza di tale diritto.
Tale dimostrazione può essere fornita, secondo il Giudice di legittimità, anche attraverso presunzioni semplici, in quanto “la prova presuntiva non è collocata su un piano gerarchicamente subordinato rispetto alle altre fonti di prova e costituisce una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva ai fini della formazione del proprio convincimento (Cass. n. 9108 del 06.06.2012)”.
Nell’ipotesi in cui l’Ufficio ritenga che la fattura concerna operazioni oggettivamente inesistenti, ossia consista in una “mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno”, e quindi proceda alla contestazione di indebita detrazione dell’Iva e/o deduzione dei costi, “ha l’onere di fornire elementi probatori del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata (ad esempio, provando che la società emittente la fattura è una “cartiera” o una società “fantasma”) e a quel punto passerà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate (cfr. Cass. n. 24426 del 30.10.2013); quest’ultima prova non potrà consistere, però, nella esibizione della fattura, né nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, i quali vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (tra le altre, Cass. n. 15228 del 03/12/2001; Cass. n. 12802 del 10.06.2011)”.
La CTR aveva decisamente escluso qualsiasi efficacia delle sentenze penali di proscioglimento nel processo tributario; tuttavia, secondo la Corte di Cassazione, deve necessariamente essere sottolineato che “nel processo tributario, l’efficacia vincolante del giudicato penale di assoluzione del legale rappresentante della società contribuente per insussistenza del reato di esposizione di elementi passivi fittizi mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, non opera automaticamente per i fatti relativi alla correlata azione di accertamento fiscale nei confronti della società, poiché in questo, da un lato, vigono limitazioni della prova (come il divieto di quella testimoniale del D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 7) e, dall’altro, possono valere anche presunzioni inidonee a fondare una pronuncia penale di condanna. Pertanto, stante l’evidenziata autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale, il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali, recependone acriticamente le conclusioni assolutorie ma, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.), deve procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio“.
La Corte, nel richiamare tale principio, ha fatto riferimento a proprie precedenti pronunce per cui la sentenza penale irrevocabile rappresenta un semplice elemento di prova, liberamente valutabile in rapporto alle ulteriori risultanze istruttorie, anche di natura presuntiva.
Naturalmente, conclude il Collegio, “spetterà al giudice di merito in sede di rinvio ogni valutazione in ordine alla rilevanza delle menzionate sentenze, anche sotto il profilo dell’effettiva configurabilità del giudicato penale”.