Non è responsabile la banca per gli accertamenti fiscali del cliente
di Luigi FerrajoliCon l’ordinanza n. 25393 depositata il 12 ottobre 2018, la Terza Sezione della Cassazione ha confermato che, in tema di richiesta risarcitoria agli istituti di credito per violazione dell’articolo 119 T.U.B., ai fini dell’accoglimento della domanda, è necessario che il ricorrente fornisca la prova del nesso causale fra il comportamento doloso della banca e il danno lamentato, nella specie discendente dalle contestazioni avanzate tramite avvisi di accertamento dell’Agenzia delle Entrate.
Nel caso specifico, la Corte d’Appello di Milano aveva rigettato l’appello proposto da una S.n.c. e dai soci della stessa, confermando la sentenza del Tribunale di prime cure che aveva rigettato la domanda risarcitoria avanzata nei confronti di una banca per asserito inadempimento agli obblighi di conservazione della documentazione relativa ad operazioni bancarie effettuate dai clienti, in forza di quanto prescritto dall’articolo 119 T.U.B..
Secondo quanto asserito dalla società attrice, l’Istituto convenuto aveva omesso di fornire la copia degli assegni negoziati a suo credito (e, quindi, degli importi dei corrispettivi versati dai propri clienti e dalla banca incassati) sui conti correnti accesi presso la filiale della banca convenuta, copie che sarebbero state asseritamente necessarie alla società per resistere alla pretesa erariale di accertamento di un maggior reddito d’impresa. In conseguenza della mancata difesa, secondo i ricorrenti, si sarebbe verificato un aggravio dell’imposizione fiscale in relazione agli anni 2006 e 2007.
Posto che, come sopra rilevato, anche la Corte territoriale aveva respinto le doglianze avanzate, la società cliente e i soci della medesima avevano proposto ricorso in Cassazione lamentando che entrambi i giudici di merito – per un’errata valutazione delle produzioni documentali (in particolare, dei due processi verbali in contraddittorio) – non avevano ritenuto provato il nesso causale tra l’inadempimento contestato e il danno patito sicché, una volta accertatone l’inadempimento, Unicredit avrebbe dovuto rispondere di ogni pagamento che la società non aveva potuto riferire alle fatture emesse negli anni in contestazione.
I ricorrenti ribadivano, altresì, che era stato impossibile per la società cliente approntare le dovute difese tributarie a causa della tardiva consegna (avvenuta dopo oltre un anno) da parte di Unicredit della copia degli assegni necessari per contraddire l’illegittima pretesa erariale.
Investita della questione, la Suprema Corte ha dato atto del rilievo per cui, nel corso degli accertamenti dell’Agenzia delle entrate, gli odierni ricorrenti si erano trovati nella difficoltà di dare riscontro delle movimentazioni bancarie – soprattutto in entrata – e della loro corrispondenza con le scritture e i documenti contabili nonché di fornire risposte adeguate in ordine alle operazioni di versamento sul conto di somme di denaro, complessivamente importanti.
Per tale ragione, l’Agenzia delle Entrate era pervenuta ad accertare un reddito d’impresa ed un valore della produzione imponibile ai fini Irap diversi e maggiori rispetto a quelli dichiarati per gli anni 2006-2007, così imponendo il pagamento delle somme evase.
La Cassazione ha tuttavia osservato che, nonostante l’obbligo per l’Istituto di fornire, ex articolo 119 T.U.B., la documentazione bancaria richiesta, la società cliente non aveva tuttavia provato il nesso causale fra il comportamento colposo della banca (conseguente all’inosservanza della richiamata disposizione) e il danno lamentato, quale asserita conseguenza degli accertamenti dell’Agenzia.
Questi ultimi si basavano sostanzialmente sulla non coincidenza fra il fatturato della società e quanto dalla stessa incassato, per cui la concreta disponibilità degli assegni in questione non avrebbe comunque potuto scongiurare gli esiti dell’accertamento stesso.
Sul punto, la Corte ha legittimamente rilevato come l’Agenzia avesse ripreso a tassazione tutti gli accrediti non giustificati – circostanza questa dalla quale era scaturito un reddito imponibile accertato di gran lunga superiore a quanto effettivamente dichiarato – argomentando come detto divario non potesse essere colmato con la documentazione richiesta all’istituto.
Per tutto quanto esposto, argomentando la Cassazione come l’esistenza o l’esclusione del rapporto di causalità tra i comportamenti dei singoli soggetti e l’evento dannoso, integrasse un giudizio di merito, come tale sottratto al sindacato di legittimità – posto che “il ragionamento posto a base delle conclusioni” era “caratterizzato da completezza, correttezza e coerenza dal punto di vista logico-giuridico” – la medesima ha dichiarato inammissibile il ricorso e condannato i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.