La Cassazione torna a pronunciarsi sulla disciplina del transfer pricing
di Massimiliano TasiniSono tanti e interessanti gli spunti di riflessione che emergono dalla lettura della approfondita motivazione della sentenza resa dalla Corte di Cassazione, Quinta Sezione Tributaria, n. 29306 del 14.11.2018, con la quale ogni motivo di appello proposto dall’Amministrazione Finanziaria è stato rigettato.
Il caso riguarda una società di capitali residente in Italia che cede prodotti chimici alla propria controllata svizzera, la quale a sua volta li cede ad una società asiatica.
Per l’Agenzia delle Entrate, il prezzo praticato dalla società italiana sarebbe stato inferiore al valore normale, come determinato ai sensi dell’articolo 9, comma 3, Tuir, d’onde la ripresa a tassazione.
Una prima questione attiene alla natura dei rilievi da transfer pricing. La società aveva fatto presente che ogni intento elusivo sarebbe stato da escludere, tenuto conto che la stessa, ma anche il Gruppo in generale, produceva perdite: secondo l’Agenzia, in effetti, l’intento elusivo era per tale motivo da escludersi.
La Corte approfitta della questione per osservare come, a dispetto della tesi meno recente (Cass. n. 15642/2015; Cass. n. 17955/2013; Cass. n. 9709/2015), deve ritenersi che l’articolo 110, comma 7, Tuir non abbia affatto natura antielusiva, con la conseguenza che l’Amministrazione deve solo dimostrare l’esistenza del rapporto di controllo nonchè la divergenza tra prezzo praticato e valore normale e non anche la sussistenza degli ulteriori requisiti previsti dall’articolo 37 bis D.P.R. 600/1973 (oggi trasfusi, pur con modificazioni, nell’articolo 10 bis L. 212/2000), ovvero che l’operazione infragruppo sia priva di valida ragione economica e che non abbia comportato un risparmio di imposta (in questo senso: Cass. n. 9673/2018, Cass. n. 30149/2017 e Cass. n. 13387/2016).
Una seconda questione attiene alla prova “principe” sui cui l’Agenzia ha fondato la ripresa, ovvero un listino prezzi privato, consegnato dall’amministratore della società durante la verifica. Sul punto, la Corte, con riferimento al tenore letterale dell’articolo 9 Tuir, nega recisamente tale possibilità, aggiungendo peraltro che nel caso di specie il listino privato faceva riferimento ai prezzi al consumatore e non a quelli praticati dal produttore al distributore.
In terzo luogo, il fatto che con la consegna di tale listino l’amministratore non abbia formulato rilievi o osservazioni non può costituire implicita ammissione della accettazione dei prezzi di quel listino ai fini della quantificazione del valore normale. È questo un punto molto delicato, poiché in più occasioni la Corte ha in qualche modo valorizzato alcuni comportamenti assunti dal contribuente durante la verifica fiscale, rafforzando la tesi erariale.
Vi è infine tutta una serie di argomentazioni dedotte dall’Agenzia a supporto della validità del valore normale determinato avendo a riferimento il listino prezzi privato. Si tratta, in tutta evidenza, di questioni di merito, rispetto alle quali la “valutazione” offerta dalla Corte non può che muoversi nello stretto ambito dell’omessa o insufficiente motivazione della pronuncia della Commissione Tributaria Regionale, ai sensi dell’articolo 360, n. 5), c.p.c. (peraltro, nella pregressa versione).
Sul punto, la Corte premette che il Giudice di merito ha per contro fornito una “motivazione analitica, congrua e convincente” in ordine alla correttezza dei prezzi applicati dalla società italiana, senza che possa ritenersi violato il criterio del valore normale.
Tra tali argomenti, alcuni sembrano particolarmente interessanti:
- è stata fornita la dimostrazione che la società distributrice ha applicato prezzi di vendita di poco superiori a quelli di acquisto, a conferma che il margine ritraibile da tali commesse era assai limitato;
- è stata dedotta l’esistenza di perdite societarie, che sul piano indiziario lasciano supporre la mancanza di intento elusivo;
- è stato fatto rilevare che la società svizzera non fruiva di regimi fiscali agevolativi;
- è stato dedotto che la vendita, talora intervenuta a prezzi addirittura inferiori al costo di produzione, era giustificata dal fatto che l’interruzione del ciclo produttivo avrebbe comportato perdite anche maggiori.