Omesso versamento Iva e responsabilità dell’ex amministratore
di Luigi FerrajoliLa Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, con la sentenza n. 45308 del 09.10.2018, si è nuovamente pronunciata in tema di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, reato previsto e punito dall’articolo 10 ter D.Lgs. 74/2000.
Nel caso di specie, in ambito di complesse imputazioni relative al delitto di bancarotta, la Corte di Appello competente aveva confermato la condanna comminata a carico dell’imputato in relazione all’omesso versamento dell’Iva per l’anno 2009, da corrispondersi entro il 27.12.2010.
Nonostante l’imputato fosse cessato dalla carica di amministratore in epoca precedente a tale scadenza, il Giudice di secondo grado aveva comunque ritenuto imputabile al medesimo l’omissione dei necessari accantonamenti con “valutazione illogica e giuridicamente errata”, anche in considerazione della presenza di note di credito Iva per fatture già emesse (a cui non era seguito pagamento), contabilizzate nell’esercizio successivo e l’inesigibilità, derivante dalla generalizzata crisi di liquidità del gruppo, dei pretesi accantonamenti.
La Suprema Corte, chiamata a decidere, ha innanzitutto rilevato che la sentenza di merito aveva correttamente ricostruito “gli indicatori di partecipazione” dell’imputato nella consumazione del reato, per cui nessun rilievo poteva assumere il fatto che, alla data di scadenza del debito tributario, il soggetto formalmente obbligato fosse persona diversa dall’imputato, ossia il liquidatore. Quest’ultimo, peraltro, era stato assolto in ragione della brevità dell’arco temporale in cui aveva rivestito detta carica e alla “ragionevole riconducibilità, secondo massime d’esperienza validate dallo stato di crisi aziendale, al precedente amministratore della mancanza delle necessarie risorse”.
Il Giudice di legittimità ha quindi evidenziato che “non risponde del reato di omesso versamento dell’Iva chi, pur avendo presentato la dichiarazione annuale, non è poi tenuto, anche per fatti sopravvenuti, al pagamento dell’imposta nel termine previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, articolo 10-ter, salvo che il pubblico ministero non dimostri che il soggetto abbia inequivocabilmente preordinato la condotta rispetto all’omissione del versamento (ad esempio, dismettendo artatamente la carica di amministratore della persona giuridica soggetto Iva), ovvero abbia fornito un contributo causale, materiale o morale, da valutarsi a norma dell’articolo 110 c.p., all’omissione della persona obbligata, al momento della scadenza, al versamento dell’imposta dichiarata”.
Secondo la Corte, l’articolo 10 ter D.Lgs. 74/2000 non è un reato a condotta di natura esclusivamente omissiva, perché il mancato versamento dell’imposta nel termine previsto presuppone la presentazione della dichiarazione annuale Iva da parte di chi è obbligato a tale adempimento “da cui emerga un debito di imposta superiore alla soglia, che impone all’obbligato comunque la destinazione vincolata delle somme già incamerate a titolo di IVA al fine del futuro adempimento tributario”.
Inoltre, è sufficiente che l’imposta sul valore aggiunto non versata sia quella “dovuta in base alla dichiarazione annuale“. Ciò significa che il debito erariale rilevante ai fini del reato de quo sia solo quello oggetto della dichiarazione annuale, non rilevando viceversa un eventuale e diverso importo che risulti dai registri delle fatture emesse, dalle fatture o dalla contabilità di impresa oppure dal bilancio.
La presentazione della dichiarazione costituisce presupposto necessario ai fini della consumazione del reato, quindi l’autore del reato deve necessariamente rappresentarsi che l’oggetto della condotta omissiva è esattamente ed esclusivamente il debito dichiarato.
Posto che il reato in esame presuppone che il debito Iva risulti dalla dichiarazione del contribuente, esso non può ritenersi integrato nel caso in cui nella stessa dichiarazione sia esposto un credito tributario.
Sulla base di tali considerazioni, dunque, la Corte di Cassazione ha ritenuto che il Giudice di appello avesse correttamente ravvisato a carico dell’imputato ricorrente “un consapevole apporto all’inadempimento del debito erariale per non aver reso disponibili le risorse necessarie al pagamento del debito Iva dal medesimo dichiarato, in un quadro di complessiva crisi di liquidità determinato da scelte imprenditoriali e non riconducibile a forza maggiore”.
La semplice produzione di note di credito e di altri documenti contabili, da parte dell’imputato, secondo la Suprema Corte non risultava idonea a ridimensionare il debito d’imposta, né apportava prove su eventuali specifiche iniziative intraprese al fine di soddisfare l’obbligazione tributaria.