La condotta commerciale anomala giustifica l’accertamento analitico-induttivo
di Angelo GinexIn tema di imposte dirette, è legittimo procedere alla rettifica delle componenti reddituali sulla base di un accertamento analitico-induttivo anche quando si sia in presenza di scritture contabili regolarmente tenute, purché le medesime siano contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano dubitare della veridicità e correttezza della contabilità esaminata. In tal caso, la prova presuntiva dei maggiori ricavi, idonea a fondare questo tipo di accertamento, può essere desunta anche da una condotta commerciale anomala del contribuente.
Sono questi i principi di diritto sanciti dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 33264 del 21.12.2018, la quale ha dato seguito all’orientamento ormai prevalente della giurisprudenza di legittimità in ordine ai requisiti che giustificano l’utilizzo dell’accertamento analitico-induttivo.
La controversia che ha portato i giudici di legittimità ad esprimersi su questa problematica prende le mosse dall’impugnazione di alcuni avvisi di accertamento che recuperavano a tassazione i maggiori ricavi presuntivamente non dichiarati dal contribuente nelle annualità 2001, 2002, 2003 e 2004.
Il contribuente, dopo aver perso il giudizio di primo grado, proponeva vittoriosamente appello innanzi alla Ctr territorialmente competente, la quale decideva di annullare gli atti impositivi summenzionati. Secondo il ragionamento addotto dai giudici di seconde cure, l’Ufficio non avrebbe dovuto adoperare il metodo analitico-induttivo, sia a causa dell’assenza di prove in merito alle omissioni gravi, ripetute e numerose ricavabili dalle scritture contabili, sia in virtù dell’insussistenza di presunzioni compatibili coi caratteri descritti dall’articolo 2729 cod. civ..
In particolare, i giudici del merito ritenevano prive di gravità, precisione e concordanza le presunzioni consistenti nella “contrarietà a logica economica”, nello scostamento dei ricavi rispetto alla media di settore, nei movimenti di capitali verso un conto estero e negli “elevati investimenti”, valutandole come insufficienti a legittimare l’Ufficio a procedere in maniera induttiva.
L’Agenzia delle Entrate, dunque, proponeva ricorso in Cassazione avverso questa decisione, chiedendone la censura e motivando la propria linea argomentativa sulla scorta di due motivi.
In primo luogo, l’Ente impositore lamentava l’esistenza di un duplice errore di diritto nella pronuncia impugnata: da un lato, essa non avrebbe dovuto far ricadere sull’Ufficio l’onere di motivazione in ordine alla incompletezza, falsità e inesattezza delle scritture contabili; dall’altro lato, essa avrebbe trascurato che il dato dell’antieconomicità dell’attività d’impresa giustificava di per sé il ricorso al metodo analitico-induttivo. Secondo le prospettazioni dell’Agenzia delle Entrate, in tal caso è sull’imprenditore che incombe l’onere di dimostrare che la differenza negativa tra i costi di acquisto e i prezzi di vendita, emersa dalle scritture contabili, non sia dovuta all’occultamento di corrispettivi percepiti.
In secondo luogo, la ricorrente deduceva un vizio di motivazione della sentenza censurata, la quale non avrebbe considerato alcuni fatti decisivi per la ricostruzione dei maggiori redditi non dichiarati ed accertati (ad esempio, le vendite erano state effettuate, nella maggior parte dei casi, al prezzo di costo dei beni ceduti).
I giudici della Suprema Corte, prima di esporre il loro convincimento in ordine alla soluzione della controversia de qua, hanno ricordato che l’accertamento con metodo analitico-induttivo è consentito, così come previsto dall’articolo 39, comma 1, lett. d), D.P.R. 600/1973, pure in presenza di una contabilità formalmente regolare.
La norma, infatti, presuppone l’esistenza di scritture regolarmente tenute, ma contestabili in virtù di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata.
Secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità, la prova presuntiva dei maggiori ricavi può essere desunta da una condotta commerciale anomala del contribuente.
Volendo esemplificare, l’Agenzia delle Entrate può effettuare un accertamento analitico-induttivo nell’ipotesi in cui un’impresa commerciale dichiari, ai fini dell’imposta sul reddito e per più anni di seguito, perdite ingenti, nonché un’ampia difformità tra costi e ricavi. Tutti questi comportamenti, infatti, costituiscono delle condotte commerciali anomale, le quali integrano gli estremi delle presunzioni atte a legittimare l’accertamento ex articolo 39 D.P.R. 600/1973.
La Corte, applicando questi principi al caso di specie, ha censurato la pronuncia emanata dalla Ctr, la quale era segnata da più errori di motivazione e di diritto, presenti tanto nella parte in cui ha reputato ingiustificato l’utilizzo del metodo analitico-induttivo, quanto nel capo in cui ha negato l’inattendibilità dei redditi dichiarati, la cui ricostruzione, invece, era sorretta da presunzioni rigide e rigorose, prima fra tutte la gestione antieconomica dell’impresa.
La Corte, dunque, ha reputato fondati i motivi di ricorso ed ha cassato con rinvio la sentenza di secondo grado.