Compensi di amministratori reversibili alla controllante estera
di Fabio LanduzziUn tema di rilevante interesse pratico è rappresentato dal trattamento fiscale dei compensi deliberati da una società di capitali italiana a favore dei propri amministratori – persone fisiche non residenti in Italia – ma oggetto di pagamento diretto a favore della controllante non residente in quanto soggetti a reversibilità secondo gli accordi esistenti fra tali persone e la società estera alle cui dipendenze prestavano i propri servizi.
Quella della reversibilità dei compensi amministratori è infatti una situazione che si incontra con una certa frequenza nei gruppi internazionali in cui i manager della capogruppo assumono, nell’ambito delle funzioni da essi svolte secondo i contratti di lavoro in essere con la stessa società, la carica di amministratori di diverse società del gruppo stesso; in queste circostanze, quindi, è fisiologico che fra il manager ed il suo datore di lavoro (la capogruppo) vi sia un accordo in funzione del quale la sua remunerazione include già anche quanto gli spetterebbe per l’ufficio di amministratore di alcune controllate, così che i compensi eventualmente deliberati da queste ultime a favore dei membri dei propri organi amministrativi sono direttamente riversati alla capogruppo, con esplicita rinuncia del manager alla loro riscossione.
La sentenza della CTP Milano n. 6357/2017 si è occupata di questi aspetti, soffermandosi sul caso di una società italiana alla quale era stata contestata l’omessa applicazione delle ritenute a titolo d’imposta che sarebbero state dovute, secondo quanto eccepito, ai sensi dell’articolo 24, comma 1-ter, D.P.R. 600/1973, in misura pari al 30%, sui compensi deliberati per i componenti del proprio consiglio di amministrazione, ma pagati alla società estera di cui essi erano dipendenti in forza della prevista loro reversibilità.
La contestazione si fondava sul fatto che i compensi di cui si tratta avrebbero dovuto essere qualificati ai sensi dell’articolo 50, comma 1, lett. c bis), Tuir (ossia, redditi di collaborazione coordinata e continuativa, assimilati a quelli di lavoro dipendente), con l’effetto di rientrare così nell’articolo 23, comma 2, Tuir, e quindi di essere considerati prodotti in Italia anche se percepiti da soggetti non residenti, per il solo fatto di essere corrisposti da un soggetto residente in Italia.
Quindi, ne sarebbe derivato l’assoggettamento a ritenuta del 30% ex articolo 24, comma 1ter, D.P.R. 600/1973.
La contestazione, poi, faceva anche leva sulla presupposta applicazione dell’articolo 16 della Convenzione contro le doppie imposizioni Italia – Francia, ai sensi del quale “i gettoni di presenza e le altre retribuzioni ricevute da un residente di uno Stato o che è membro del consiglio di amministrazione o del collegio sindacale sono imponibili in detto Stato“.
La CTP di Milano accoglie il ricorso della società annullando l’accertamento alla luce di una lucida ricostruzione della disciplina che regola la fattispecie in oggetto.
In primo luogo: non si configura imponibile per un soggetto una somma di cui questi non abbia in alcun modo la disponibilità.
Ed in questo caso, non vi era dubbio che il compenso di cui si tratta fosse stato pagato alla società estera, proprio in forza dell’accordo di riversamento con il suo dipendente, con la conseguenza che mancherebbe sulla persona stessa il presupposto impositivo sostanziale.
Sul fronte della disciplina convenzionale, poi, la norma di riferimento non è l’articolo 16, bensì l’articolo 7, proprio perché è acclarato che si tratta di compensi che sono riversati al datore di lavoro (la società estera) in forza di un rapporto contrattuale di lavoro dipendente esistente fra codesta società ed il manager; l’articolo 7, par. 1, della Convenzione Italia – Francia dispone che, in assenza di stabile organizzazione nell’altro Stato (Italia), i redditi d’impresa sono imponibili soltanto nello Stato di residenza del percettore (Francia).
Infine, a giudizio della CTP, la fattispecie deve essere inquadrata – diversamente dalla prospettazione fatta dall’Amministrazione – nell’ambito dell’articolo 50, comma 1, lett. b), Tuir: ossia, sono redditi assimilati ai redditi di lavoro dipendente i “compensi percepiti a carico di terzi dai prestatori di lavoro dipendente per incarichi svolti in relazione a tale qualità, ad esclusione di quelli che per clausola contrattuale devono essere riversati al datore di lavoro (…)”.
Secondo la norma citata, quindi, se i compensi sono riversati al datore di lavoro, non costituiscono reddito per il dipendente, bensì per il datore di lavoro; l’effetto è che si esce dal comparto del reddito di lavoro dipendente per entrare in quello del reddito di impresa.
Quindi, si tratta di compensi che la società non residente percepisce nell’ambito del reddito d’impresa e non avendo essa una stabile organizzazione in Italia, va da sé che ai sensi dell’articolo 23, comma 1, lett. e), Tuir, tale reddito non è imponibile in Italia.
Conseguenza finale è che nessuna tassazione, neppure a mezzo ritenuta alla fonte, può essere effettuata in Italia.