La valutazione del comportamento antieconomico del contribuente
di Angelo GinexAi sensi dell’articolo 39, comma 1, lett. d), D.P.R. 600/1973 l’accertamento analitico-induttivo consiste nella contestazione dell’evasione mediante il ricorso a presunzioni “qualificate”, ovvero gravi, precise e concordanti.
In sostanza, detta censura prende le mosse dal ragionamento presuntivo dell’Amministrazione finanziaria, che procede alla ricostruzione di una o più voci reddituali in modo difforme rispetto alle risultanze contabili.
Tra le diverse tipologie di accertamenti presuntivi (accertamenti basati sulle percentuali di ricarico, accertamenti basati su fattori produttivi, accertamenti basati su documentazione extracontabile, ecc.) risulta di particolare interesse quello basato sul comportamento antieconomico dell’imprenditore, ravvisabile nella ipotesi in cui, ad esempio, i prezzi praticati non superino i costi o la media del settore, in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza sul presupposto che chiunque svolga un’attività economica è indotto a generare utili.
Invero, l’orientamento che sembra ormai consolidarsi in seno alla Suprema Corte a proposito di accertamento scaturente da comportamento antieconomico è quello per il quale la gestione antieconomica dell’attività imprenditoriale può celare operazioni evasive, così legittimando l’Amministrazione finanziaria ad accertare un maggior reddito anche in assenza di irregolarità formali nella contabilità e, a maggior ragione, in caso di inattendibilità della stessa (Cfr. ex multis, Cass. ord. n. 20431/2017).
In tali ipotesi, comunque, il contribuente può superare le presunzioni qualificate, o semplicissime in caso di rettifica induttiva ex articolo 39, comma 2, D.P.R. 600/1973, dell’Amministrazione finanziaria.
Tra le possibili difese, che il panorama giurisprudenziale di riferimento ha portato alla luce, vi è, ad esempio, quella secondo la quale il campione considerato dai verificatori non è rappresentativo, la percentuale di ricarico è stata applicata in anni diversi da quello accertato, l’impresa ha risentito della crisi del mercato, l’impresa è situata in una zona depressa o i prodotti venduti hanno carattere eterogeneo.
Sul punto, è recentemente intervenuta la sentenza n. 24536 del 02.10.2019, nella quale la Corte di Cassazione, allargando il campo delle possibili difese dell’imprenditore cui venga contestata una gestione antieconomica, ha evidenziato che il comportamento antieconomico può essere giustificato anche in caso di attività iniziata solo di recente, così inaugurando un nuovo – da quanto ci risulta – orientamento.
Nel caso di specie, alla società Alfa in fallimento veniva notificato un avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate contestava un maggior reddito imponibile sulla base, ai fini che qui interessano, della ritenuta antieconomicità dell’attività imprenditoriale, da cui veniva fatta derivare l’inattendibilità della contabilità e, quindi, la legittimità della rettifica induttiva ex articolo 39, comma 2, D.P.R. 600/1973.
Dopo i tre gradi di giudizio, seguiva quello di rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, che si concludeva con una pronuncia di accoglimento dell’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate. Pertanto, la curatela fallimentare proponeva ricorso in Cassazione, lamentando in estrema sintesi, tra le altre doglianze, che la gestione antieconomica dell’attività imprenditoriale, desunta dalla sproporzione tra costi e ricavi, non potesse legittimare sic et simpliciter la rettifica induttiva.
Ebbene, la Suprema Corte ha affermato tout court che i giudici di secondo grado, al fine di valutare l’antieconomicità e l’incongruità dei costi, avrebbero dovuto prendere in considerazione le circostanze fattuali addotte dalla società, ovvero il fatto che essa fosse in una fase di start up, avendo iniziato solo di recente l’attività, a nulla rilevando quindi la concentrazione dei costi, appunto, nella fase iniziale.
Secondo i giudici di legittimità, infatti, se tali elementi di fatto fossero stati debitamente apprezzati nel giudizio d’appello, avrebbero potuto, in ipotesi, escludere il fondamento stesso del relativo ragionamento inferenziale infondatamente sostenuto dall’Agenzia delle Entrate, secondo cui dal comportamento antieconomico deriva l’inattendibilità della contabilità e, quindi, la legittimità del ricorso all’accertamento induttivo.
In definitiva, la citata pronuncia appare certamente apprezzabile, dacché la Corte di Cassazione ammette “saggiamente” una possibile sproporzione tra costi e ricavi nella delicata fase di start up, in cui l’impresa che sta avviando il proprio business realizza evidentemente importanti investimenti, sì escludendo la legittimità di quelle rettifiche secondo cui dietro tale gestione si celerebbero operazioni evasive.