14 Maggio 2020

Studi di commercialisti quotati in Borsa, un trend globale e in crescita che può arrivare anche in Italia?

di Corrado Mandirola di MpO & PartnersGiangiacomo Buzzoni di MpO & Partners
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Molte attività di successo sono quotate in Borsa. Spesso si pensa a colossi come Apple, Jhonson&Jhonson, Visa o Nike, ma sono oltre 600.000 le aziende attualmente presenti sui listini di tutto il mondo e tra queste vi sono anche studi di commercialisti. In Italia questo fenomeno non si è ancora presentato, ma esistono oggi i presupposti perché presto si verifichi.

Il contesto degli studi di commercialisti in Italia è caratterizzato da un trend negativo della profittabilità, la cui causa principale è da ricercarsi nella estrema polverizzazione del settore con oltre il 70% di studi mono professionali. Il percorso da seguire per invertire questo trend è quello dell’aggregazione, ottimizzando i costi e aumentando la quantità dei servizi specialistici offerti.

La quotazione rappresenta un volano per l’acquisizione/aggregazione di studi professionali (raccolta del capitale necessario, pagamento tramite azioni ecc.) e incrementa la visibilità dello studio quotato a livello nazionale e internazionale, con effetti benefici nei rapporti con clienti, fornitori, finanziatori e dipendenti. Inoltre, il mercato può fornire le risorse necessarie per gli investimenti in tecnologia (non solo le apparecchiature ma anche software e intelligenze artificiali) e training, che permettono di essere maggiormente competitivi grazie a prezzi più bassi e una maggiore qualità della prestazione. Da ultimo, non certo per importanza, la quotazione garantisce exit semplificate per i senior partner, altrimenti possessori di una quota virtuale e illiquida di uno studio di piccole dimensioni.

Quanto appena detto per il contesto italiano è comune a molti altri paesi sviluppati, come America, Inghilterra e Australia, che hanno già visto la nascita di grandi aggregatori di studi di commercialisti quotati in Borsa. Perché in Italia allora non è ancora avvenuto? Principalmente per due ragioni: normativa e dimensioni.

Con riferimento alla normativa, già negli anni 90 l’Institute of Chartered Accountants Australia (l’Ordine australiano) decise di permettere ai commercialisti l’utilizzo di forme giuridiche diverse dalle associazioni/società di persone (come incorporation e trust). Inoltre, permise a non professionisti di diventare membri associati dell’ICAA e proprietari di società di commercialisti. Anche in altri paesi, come UK e US, le modifiche legislative e regolamentari favorirono le aggregazioni tra commercialisti, mediante la cessione della titolarità degli studi a soggetti non commercialisti e introducendo una forma giuridica di associazione a responsabilità limitata. Questi provvedimenti portarono ad un rapido processo di aggregazione. Ad esempio, American Express e H&R Block acquistarono migliaia di studi negli US e WHK Group acquistò 140 studi di commercialisti/consulenti della pianificazione finanziaria in Australia e Nuova Zelanda tra il 1997 ed il 2011, al pari di decine di altri aggregatori. Oggi, la maggior parte dei più grandi studi (o meglio società) di contabilità del mondo sono quotati su un mercato borsistico.

In Italia la liberalizzazione ha determinato la nascita delle società tra professionisti (Stp) ed è quindi possibile avere una società di capitali, punto di partenza di una quotazione. Tuttavia, la previsione per cui per l’esercizio dell’attività di dottore commercialista sia necessaria la maggioranza dei 2/3 dei soci professionisti per teste e per quote esclude l’opportunità della quotazione diretta di uno studio. Quanto detto, tuttavia, riguarda le sole attività protette e non quelle loro ausiliarie (ad esempio il data entry di cedolini e contabilità), tra l’altro le uniche su cui poter generare economie di scala. Quindi è possibile ipotizzare una struttura a due livelli: una S.p.A. quotata dedicata all’esercizio delle attività ausiliarie, affiancata da uno studio associato o una Stp che svolga le attività protette. Tra le due vi dovranno poi essere solidi vincoli contrattuali nella ripartizione delle spese generali, sostenute dalla S.p.A.

Il secondo problema riguarda la dimensione. Ciascun mercato azionario ha dei limiti minimi di dimensione per la società quotanda. Il mercato più “permissivo” oggi disponibile in Italia è AIM Italia. Essendo un MTF (Multilateral Trading Facility) non è un mercato regolamentato ai sensi della Direttiva MiFID e permette di godere dei benefici derivanti dalla quotazione con un percorso di accesso più semplice e a costi più contenuti rispetto al MTA (Mercato Telematico Azionario): in particolare sono previsti, oltre ad una procedura di ammissione più rapida, requisiti di ammissione semplificati quali il flottante minimo ridotto (10%) e l’assenza di una capitalizzazione minima richiesta. Ai fini della stabilità del titolo è tuttavia consigliabile un valore superiore ai 20 ML, e gli studi italiani, anche quelli che hanno già concluso un primo round di aggregazioni, sono comunque troppo piccoli. Va evidenziato che il fenomeno delle aggregazioni sta conoscendo una crescita significativa e iniziano a popolare il mercato diversi studi, o gruppi di studi, con dimensioni tali da soddisfare i requisiti richiesti dall’AIM.

Ci troviamo dunque in una situazione in cui potrebbe svilupparsi, al pari dei paesi anglosassoni, un processo aggregativo di studi di commercialisti, innescato dal primo/dai primi studi che si apriranno al mercato raccogliendo i capitali necessari per un programma di acquisizioni.

Vista la portata del fenomeno diventa importante analizzarne anche i profili di rischio. La principale preoccupazione per effetti potenzialmente negativi della quotazione in Borsa di studi professionali riguarda sicuramente il rischio di perdita di professionalità, determinata da un processo decisionale non più in capo ai professionisti ma a manager, e dalle conseguenti modalità di calcolo dei compensi dei professionisti e quindi dai loro incentivi.

Come spesso accade, ci si trova in un trade-off tra questa preoccupazione e quella dell’arrivo degli aggregatori esteri. Gran parte dei business plan presentati da queste entità, in sede di IPO, prevedevano infatti il consolidamento dei target acquisiti a livello nazionale, per poi aprirsi a livello internazionale.

E’ bene quindi che questo fenomeno proceda con celerità anche nel nostro paese, al fine di evitare che studi decisamente meglio strutturati e con maggior capacità d’investimento, specie in tecnologie, erodano fette di mercato sino ad oggi roccaforte dei professionisti italiani.