Disposizioni convenzionali e regimi fiscali differenziati
di Francesca AmaddeoLa Corte di Giustizia dell’Unione Europea torna ad esprimersi sulla compatibilità del principio della libera circolazione delle persone e della parità di trattamento con le disposizioni convenzionali di ripartizione della potestà impositiva basate sul criterio della nazionalità.
Oggetto di analisi è il regime fiscale applicato alle pensioni definito nella Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Portogallo.
Nelle cause riunite C-168/19 e C-169/19, due cittadini italiani trasferitisi in Portogallo dopo aver cessato le proprie attività lavorative nell’ambito del settore pubblico in Italia, chiedevano all’Inps di ricevere le proprie pensioni al lordo, senza che alle stesse venisse applicato il prelievo della ritenuta alla fonte da parte dell’Italia in ottemperanza a quanto previsto negli articoli 18 e 19 della Convenzione contro le doppie imposizioni sottoscritta tra i due Paesi.
L’articolo 18 inerisce le pensioni percepite da soggetti che hanno svolto la propria attività nel settore privato, mentre il successivo articolo 19 fa riferimento al settore pubblico.
L’Inps, rifacendosi a quanto disposto nella Convenzione, rifiutava di dar corso alla richiesta dei ricorrenti: la norma convenzionale, infatti, dispone che, di regola, la potestà impositiva appartiene in via esclusiva all’Italia.
L’unica deroga perché il potere impositivo sia riconosciuto in capo al Portogallo è data dal rispetto di due requisiti cumulativi:
- la residenza e
- la cittadinanza del contribuente in quest’ultimo Paese (articolo 19 cpv. 2).
I due pensionati, residenti in Portogallo, ma non cittadini portoghesi, ricorrevano avverso tale diniego alla Corte dei Conti (Sezione Giurisdizionale per la Regione Puglia) eccependo una manifesta disparità di trattamento, statuita nella Convenzione, tra pensionati italiani residenti in Portogallo, a seconda che costoro provengano dal settore privato o da quello pubblico, a beneficio dei primi.
Ciò comporterebbe, a loro parere, una lesione sia del principio di parità di trattamento di cui all’articolo 18 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea sia della libera circolazione delle persone, ai sensi del successivo articolo 21.
Il giudice d’appello, dando corso ai dubbi rappresentati dai contribuenti, presentava alla Corte di Giustizia domanda pregiudiziale ex articolo 267 del Trattato al fine di acclarare “se gli articoli 18 e 21 TFUE devono essere interpretati nel senso che essi ostano a che la normativa di uno Stato membro preveda per una persona residente in un altro Stato membro, che ha acquisito integralmente il suo reddito nel primo Stato membro ma che non abbia la nazionalità del secondo Stato, una tassazione del reddito senza le agevolazioni fiscali di quest’ultimo”.
Ribadisce la Corte, ancor prima di soffermarsi sull’essenza vera e propria della questione pregiudiziale, la sussumibilità della fattispecie in esame nello spettro applicativo dell’articolo 18 TFUE, ossia il principio di non discriminazione basato sulla cittadinanza legato alla libertà di circolazione delle persone ex articolo 21 TFUE, secondo il suo ormai consolidato orientamento.
Ciò premesso, occorre rilevare come gli articoli 18 e 19, cpv. 2 della Convenzione fra Italia e Portogallo, i quali ricalcano quanto previsto dal Modello Ocse, mirino a ripartire la potestà impositiva tra i due Paesi relativamente ai redditi derivanti da pensione.
In proposito richiamano fattori di collegamento differenti a seconda che l’impiego del contribuente sia stato nel settore privato ovvero nel settore pubblico. Tendenzialmente, in questa seconda ipotesi, i contribuenti sono assoggettati ad imposta nello Stato debitore della pensione, a meno che essi non possiedano la cittadinanza dell’altro Stato contraente in cui risiedono.
Oggetto di analisi da parte della Corte è, pertanto, l’eventuale violazione del principio di parità di trattamento (e, in subordine, della libera circolazione delle persone) da parte di un regime tributario convenzionale sulla scorta dell’impiego in un settore (privato o pubblico) piuttosto che in un altro e, nella specie, che per uno dei due la cittadinanza costituisca criterio di collegamento.
Tuttavia, secondo la Corte, anche nel caso de quo, occorre ribadire come, nella sottoscrizione delle Convenzioni, il cui scopo è quello di evitare i fenomeni della c.d. doppia imposizione (giuridica ed economica), i due Paesi, Stati membri dell’Unione europea abbiano facoltà di esercitare piena discrezionalità, purché nel rispetto del diritto dell’UE.
In tale sede, pertanto, non è necessario assicurare ai contribuenti l’assenza di eventuali svantaggi fiscali, i quali derivano essenzialmente dalle divergenze dei regimi tributari domestici.
Tale diversità, infatti, non sembrerebbe appianabile ex lege in assenza di un’armonizzazione in ambito di imposte dirette all’interno dell’Unione europea.
A rigore, Italia e Portogallo, si sono riferiti al Modello Ocse, laddove figuravano già tra le opzioni per determinare il criterio di collegamento (i) lo Stato pagatore e (ii) la cittadinanza, operando, quindi, in linea con la prassi tributaria internazionale.
Ciò implica che il criterio della cittadinanza, in questo caso, essendo utilizzato esclusivamente ai fini della ripartizione della potestà impositiva, non può essere considerato quale fattore discriminatorio vietato a discapito del contribuente.
Al pari, infatti, l’attribuzione della potestà impositiva in capo allo Stato pagatore (relativamente alle pensioni di chi ha svolto la propria attività lavorativa nel settore pubblico) non può essere di per sé considerato come elemento avente ripercussioni negative sul contribuente interessato: il carattere favorevole (o sfavorevole) del regime tributario che ne deriva, non scaturisce dalla scelta del fattore di collegamento utilizzato, bensì dal livello d’imposizione applicato a livello domestico.
Nel momento in cui la cittadinanza viene utilizzata come criterio in una disposizione che ripartisce la potestà impositiva, il trattamento differenziato fondato sulla nazionalità non può essere considerato come discriminazione vietata. Ciò non toglie che il principio della parità di trattamento debba essere rispettato nel momento in cui lo Stato avente la potestà impositiva venga ad esercitarla.
La disparità di trattamento eccepita dai contribuenti, pertanto, sembrerebbe riconducibile alla ripartizione della potestà impositiva operata nella Convenzione tra Italia e Portogallo e alle divergenze intrinseche dei rispettivi regimi fiscali definiti dalle rispettive legislazioni nazionali.
Sulla scorta di tali ragioni, dunque, la Corte ha concluso rappresentando come il regime tributario risultante da una Convenzione conclusa tra due Stati membri, in forza della quale la competenza tributaria di questi Stati in materia di imposte sulle pensioni è ripartita a seconda che i beneficiari siano impiegati nel settore privato ovvero nel settore pubblico e, in quest’ultimo caso, a seconda che essi abbiano o meno la cittadinanza dello Stato membro di residenza, non viola il diritto dell’UE e, nella specie, gli articoli 18 e 21 del Trattato.