D.L. Rilancio: dalla digitalizzazione degli atti una chance per il contribuente
di Angelo GinexL’articolo 157 D.L. 34/2020 (c.d. Decreto Rilancio) prevede per tutti gli atti accertativi in scadenza tra il 9 marzo e il 31 dicembre 2020 (quindi, relativi al periodo di imposta 2015 o 2014) una proroga dei termini di decadenza al 31 dicembre 2021.
Più precisamente, viene operata una scissione tra emissione e notifica dell’atto, nel senso che questo dovrebbe essere emesso entro il 31 dicembre 2020, ma notificato entro il 31 dicembre 2021, al fine di consentire, come si legge nella relazione illustrativa, la distribuzione degli atti in un più ampio lasso di tempo.
Al di là di qualsivoglia considerazione circa la soluzione giuridica adottata, la vera domanda è: come potrà il contribuente verificare che l’atto sia stato effettivamente emesso entro il 31 dicembre 2020?
Probabilmente, anche al fine di dare concreta attuazione al principio di correttezza e buona fede di cui all’articolo 10 L. 212/2000 (intesi, ovviamente, in senso lato), in un’ottica di tutela del contribuente, la soluzione ideale sembrerebbe essere quella di dare seguito alla riforma, prima avviata e poi stoppata (quantomeno limitatamente all’obbligo di adeguamento dei sistemi di gestione informatica dei documenti), concernente la c.d. digitalizzazione degli atti amministrativi.
In tale contesto, allora, diverrebbe importante capire quali requisiti devono essere soddisfatti affinché la data e l’ora di emissione dell’avviso di accertamento “digitale” siano opponibili al contribuente.
A tal proposito, si rammenta che il combinato disposto degli articoli 40 e 71 D.Lgs. 82/2005 (c.d. Codice dell’amministrazione digitale – CAD) impone alle pubbliche amministrazioni (tra cui la stessa Agenzia delle Entrate) l’obbligo di emissione e conservazione degli atti di natura provvedimentale in formato digitale, mediante l’ausilio di apposti sistemi informatici e nel rispetto delle regole tecniche contenute nelle Linee guida adottate dall’AgID (Agenzia per l’Italia Digitale).
Queste ultime, con specifico riferimento alla sottoscrizione elettronica di documenti ai sensi dell’articolo 20 CAD, sono state adottate il 23 aprile scorso, facendo seguito all’adozione del “Regolamento per l’adozione di Linee Guida per l’attuazione del Codice dell’Amministrazione Digitale”.
Ciò detto, appare evidente come la speciale previsione di regole tecniche, in osservanza delle quali un soggetto terzo (presente nell’elenco CNIPA) può attribuire data certa al documento informatico, sia sinonimo di garanzia per il contribuente, così come previsto dall’articolo 20, comma 1-bis, CAD, secondo cui «La data e l’ora di formazione del documento informatico sono opponibili ai terzi se apposte in conformità alle Linee guida».
Tale disposizione, però, fornisce anche un interessante spunto di riflessione circa le possibili strategie difensive del contribuente in tutte quelle ipotesi in cui assume rilevanza la data di emissione dell’avviso di accertamento.
Si tratta, evidentemente, non solo della previsione di cui al D.L. Rilancio, ma anche, ad esempio, dell’ipotesi in cui si contesti il mancato rispetto del termine di 60 giorni di cui all’articolo 12, comma 7, L. 212/2000, rispetto al quale, in caso di eccezione del contribuente, ciò che rileva è giustappunto la data di emissione dell’atto impositivo.
A tal proposito, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 12939/2017, ha affermato che: «Se è vero che l’articolo 20, comma 3, cod. amm. digitale prevede che la data e l’ora del documento informatico sono opponibili ai terzi solo “se apposte in conformità alle regole tecniche sulla validazione temporale”, è anche vero che l’accreditamento e la conseguente iscrizione della società certificatrice nell’apposito elenco pubblico tenuto dal CNIPA, ai sensi dell’articolo 29 cod. cit. (nel testo, qui applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche introdotte con il D.Lgs. 26 agosto 2016, n. 179) comporta necessariamente una presunzione di conformità della sua attività a dette regole – che, ai sensi del comma 2 del predetto articolo, chi richieda l’accreditamento deve impegnarsi a rispettare – in ciò risiedendo appunto l’utilità di un accreditamento da parte della pubblica autorità».
Quindi, appare evidente come la contestazione della parte privata circa la sussistenza dei requisiti per la data certa rappresenti una valida strategia difensiva, dacché l’ente erariale è tenuto a dimostrare l’intervenuta validazione temporale da parte di soggetto iscritto nell’apposito elenco pubblico tenuto dall’AgID.
La questione si complica irrimediabilmente, invece, nell’ipotesi del classico atto cartaceo, giacché dovrebbe trovare applicazione il principio per cui, trattandosi di atto pubblico, i fatti (data di emissione) che il pubblico ufficiale attesti avvenuti in sua presenza o da lui stesso compiuti sono assistiti da fede privilegiata (cfr., Cass. ord. n. 4176/2019).
Nel caso del ruolo, infatti, si è affermato che questo «ben può essere ricompreso nella categoria degli atti pubblici, ex articolo 2699 c.c., in quanto formato da pubblico ufficiale (dirigente ufficio tributi) autorizzato a manifestare all’esterno la volontà della pubblica amministrazione, e pertanto è atto che fa piena prova, fino a querela di falso, sulla provenienza delle scritture dell’atto e sulla attività che il P.U. afferma di avere esplicato, ivi compreso la data in cui è attestato il compimento delle attività medesime» (cfr., Cass. sent. n. 16665/2011).
Peraltro, il citato articolo 157 stabilisce che l’elaborazione o l’emissione degli atti o delle comunicazioni è provata “anche” dalla data di elaborazione risultante dai sistemi informativi dell’Agenzia delle entrate, compresi i sistemi di gestione documentale dell’Agenzia medesima.
In tal caso, quindi, non sembra residuare altra possibilità che il compimento di un vero e proprio atto di fede (oltre, chiaramente, alla proposizione della querela di falso).