Inammissibile l’azione revocatoria nei confronti di un fallimento
di Sergio PellegrinoLe Sezioni unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12476 depositata ieri, si sono pronunciate sulla controversa questione dell’ammissibilità dell’azione revocatoria, ordinaria e fallimentare, nei confronti di un fallimento.
La problematica era stata già affrontata dalla Cassazione, sempre a Sezioni unite, con la sentenza n. 30416 del 2018, che aveva concluso per l’inammissibilità, alla luce del fatto che l’azione revocatoria ordinaria o fallimentare si concretizza in un’azione costitutiva che modifica ex post una situazione giuridica preesistente e che, alla data di apertura del concorso, il passivo si deve considerare cristallizzato al fine di tutelare la massa dei creditori.
La prima Sezione della Corte ha però sollecitato una revisione di tale orientamento, anche alla luce delle tesi contrarie sostenute in ambito dottrinale.
Per quanto concerne la considerazione circa la natura costitutiva della sentenza che accoglie l’azione revocatoria, messa in dubbio dai giudici della prima Sezione, la “nuova” pronuncia delle Sezioni unite conferma le conclusioni raggiunte da quella “vecchia”, peraltro già affermate da precedenti pronunce (Cass. SS.UU. n. 5443/1996 e n. 437/2000).
Al riguardo viene affermato come “la situazione giuridica vantata dalla massa ed esercitata dal curatore non integra infatti un diritto di credito (alla restituzione della somma o dei beni) esistente prima e indipendentemente dall’esercizio dell’azione giudiziale, ma rappresenta un vero e proprio diritto potestativo all’esercizio dell’azione revocatoria, al punto che rispetto a esso non è configurabile l’interruzione della prescrizione a mezzo di semplice atto di costituzione in mora (articolo 2493, ultimo comma, cod.civ.)”.
L’azione revocatoria ha, infatti, “unicamente” la funzione di ricostituire la garanzia generica assicurata al creditore del patrimonio del suo debitore e da questi messa in pericolo per effetto di un atto dispositivo: se accolta, non comporta la restituzione del bene al patrimonio del debitore, quanto piuttosto l’inefficacia dell’atto dispositivo nei confronti del solo creditore che ha agito, consentendogli così di aggredire il bene attraverso l’azione esecutiva nel momento in cui il credito non sia stato soddisfatto.
L’inefficacia in questione può, evidentemente, soltanto sopravvenire, laddove vi siano le condizioni, nel momento in cui vi è l’accoglimento della revocatoria, che quindi incide ex post sulla situazione preesistente: non è accettabile la tesi sostenuta da parte della dottrina, e di fatto richiamata nell’ordinanza interlocutoria della prima Sezione, che spiegherebbe l’azione revocatoria ordinaria sul piano delle limitazioni del potere del debitore di disporre dei propri beni, cosa che evidentemente non è.
L’azione revocatoria, si è detto, produce benefici esclusivamente a favore del creditore che l’abbia esercitata – nel caso del fallimento, evidentemente, per l’intera massa dei creditori -, ma l’atto dispositivo non è inefficace né per il debitore, né per la controparte.
Il terzo acquirente del bene continua a mantenere inalterato il diritto di proprietà, ma diventa esposto alle ragioni esecutive del creditore, in una situazione che può essere assimilata a quella del terzo acquirente del bene ipotecato o dato in pegno.
L’eventuale fallimento dell’acquirente rileva, da questo punto di vista, per la necessità di cristallizzare l’asse fallimentare, ossia il patrimonio e dunque l’attivo, alla data del fallimento: si apre di fatto il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito per titolo anteriore alla sentenza, mentre accadimenti successivi non debbono incidere sull’asse patrimoniale assoggettato al concorso.
L’accoglimento dell’azione revocatoria successiva al fallimento dell’acquirente determinerebbe come conseguenza il recupero del bene alla garanzia patrimoniale del solo creditore dell’alienante, sottraendolo invece alla garanzia collettiva dei creditori dell’acquirente: si violerebbero così i principi della disciplina fallimentare. L’azione deve essere, perciò, considerata inammissibile, poiché non è possibile sottrarre il bene oggetto dell’azione all’asse fallimentare cristallizzato al momento della dichiarazione di fallimento.
I giudici hanno, nel contempo, ben presente l’esigenza che non vengano compromessi gli interessi dei creditori dell’alienante, che devono anch’essi trovare tutela da parte dell’ordinamento.
Vi è però un punto di equilibrio: se il fallimento dell’acquirente impedisce il recupero del bene per esercitare su di esso l’azione esecutiva, non preclude invece l’insinuazione al passivo di quel fallimento per il corrispondente controvalore.
Di seguito si espongono i principi di diritto affermati dalla sentenza:
- oggetto della domanda di revocatoria (ordinario fallimentare) non è il bene in sé, ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori mediante l’assoggettabilità del bene a esecuzione;
- il bene dismesso con l’atto rievocando viene in considerazione, rispetto all’interesse dei creditori dell’alienante, soltanto per il suo valore;
- ove l’azione costitutiva non sia stata dai creditori dell’alienante introdotta prima del fallimento dell’acquirente del bene che ne costituisce oggetto, essa – stante l’intangibilità dell’asse fallimentare in base a titoli formati dopo il fallimento (c.d. cristallizzazione) – non può essere esperita con la finalità di recuperare il bene alienato alla propria esclusiva garanzia patrimoniale, poiché si tratta di un’azione costitutiva che modifica ex post una situazione giuridica preesistente;
- in questo caso i creditori dell’alienante (e per essi il curatore fallimentare ove l’alienante sia fallito) restano tutelati nella garanzia patrimoniale generica dalle regole del concorso, nel senso che possono insinuarsi al passivo del fallimento dell’acquirente per il valore del bene oggetto dell’atto di disposizione astrattamente revocabile, demandando al giudice delegato di quel fallimento anche la delibazione della pregiudiziale costitutiva.