Revocazione: ammissibile il ricorso in caso di mancata allegazione della sentenza
di Angelo GinexNel processo tributario è sempre previsto che, in sede di costituzione in giudizio, il contribuente debba depositare l’atto impugnato (a seconda dei casi, può trattarsi di un atto impositivo o della riscossione, oppure di una sentenza).
Appare evidente come dalla previsione a pena di inammissibilità o meno di tale adempimento discendano conseguenze di gran lunga differenti per il contribuente.
Di tale vexata quaestio, in relazione al giudizio di revocazione, si è recentemente occupata la Corte di Cassazione, che ha offerto importanti chiarimenti circa l’inapplicabilità dell’articolo 399 c.p.c. al processo tributario.
Sul punto, si rammenta innanzitutto che l’articolo 64 D.Lgs. 546/1992 richiama espressamente l’articolo 395 c.p.c. per quanto concerne i motivi di revocazione, mentre l’articolo 65 del medesimo decreto legislativo riproduce, adattandolo al rito tributario, l’articolo 398 c.p.c..
Il secondo comma dell’articolo 65 D.Lgs. 546/1992 prevede, a pena di inammissibilità, che il ricorso per revocazione debba contenere tutti gli elementi previsti dall’articolo 53, comma 1, D.Lgs. 546/1992 per il ricorso in appello, e precisamente:
a) l’indicazione della Commissione tributaria a cui è diretto;
b) l’indicazione delle altre parti che hanno partecipato al giudizio e nei cui confronti è proposto;
c) gli estremi della sentenza impugnata;
d) l’esposizione sommaria dei fatti;
e) l’oggetto della domanda; nonché
f) la specifica indicazione del motivo di revocazione;
g) la prova dei fatti di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 dell’articolo 395 c.p.c.; e
h) il giorno della scoperta del dolo o della falsità dichiarata o del recupero del documento.
Il successivo comma 3 dell’articolo 65 citato stabilisce, inoltre, che «il ricorso per revocazione è proposto e depositato a norma dell’art. 53, comma 2», D.Lgs. 546/1992, e quindi, tenendo conto di quanto previsto per l’appello, ciò implica che la domanda di revocazione si propone con ricorso che deve essere notificato alle parti in giudizio e deve essere depositato presso la segreteria della Commissione tributaria adita secondo le modalità di cui all’articolo 22, commi 1, 2 e 3, D.Lgs. 546/1992.
Sulla scorta delle disposizioni normative richiamate, così come evidenziato dalla stessa Corte di Cassazione con ordinanza n. 1233 del 21.01.2020, appare evidente che queste «non contemplano, dunque, l’onere a carico del contribuente che propone ricorso per revocazione di allegare copia della sentenza impugnata, essendo sufficiente l’indicazione in ricorso degli estremi della sentenza, e, peraltro, il terzo comma dell’articolo 53 del d. Igs. n. 546/1992, da intendersi richiamato dall’articolo 66 dello stesso decreto legislativo, pone a carico della segreteria della Commissione tributaria regionale l’onere di richiedere alla segreteria della Commissione tributaria provinciale la trasmissione del fascicolo del processo, che deve contenere copia autentica della sentenza».
Conseguentemente, l’articolo 399 c.p.c., che opera in caso di revocazione proposta con atto di citazione nel processo civile, non può trovare applicazione nel processo tributario, per il quale il D.Lgs. 546/1992 detta una autonoma regolamentazione incompatibile con la prima, ma soprattutto speciale, anche in virtù di quanto previsto dall’articolo 1 di quest’ultimo decreto.
La soluzione rassegnata dai giudici di vertice appare pienamente condivisibile, anche alla luce di quello che è l’orientamento giurisprudenziale relativo ai giudizi di primo e secondo grado per il mancato deposito dell’atto impugnato o della sentenza di primo grado.
A tal proposito, infatti, sembrerebbe consolidarsi il principio per cui la mancata produzione dell’atto impugnato non causi l’inammissibilità del ricorso, dacché è possibile produrre l’atto in un momento successivo ed eventualmente anche su impulso del giudice tributario ex articolo 22, comma 5, D.Lgs. 546/1992 (cfr., Cassazione, sentenza n. 26560/2014).
D’altronde, secondo l’insegnamento della Corte Costituzionale (cfr., Corte Cost., sentenze nn. 189/2000 e 520/2002), le disposizioni processuali tributarie devono essere lette in armonia con i valori della tutela delle parti in posizione di parità, evitando irragionevoli sanzioni di inammissibilità, per cui tali previsioni di inammissibilità, proprio per il loro rigore sanzionatorio, devono essere interpretate in senso restrittivo, limitandone cioè l’operatività ai soli casi nei quali il rigore estremo è davvero giustificato.
Peraltro, si è addirittura affermato che «se il p.v.c. è parte integrante dell’atto impugnato, l’onere di produrre tale atto grava sull’ente impositore che deve dimostrare la fondatezza del proprio assunto, sulla base delle constatazioni effettuate dagli organi di controllo; tant’è vero che frequentemente i contribuenti impugnano gli atti impositivi proprio perché non sono corredati del p.v.c. richiamato e/o non notificato» (cfr., Cass. sent. n. 21509/2010).
Tuttavia, è d’uopo evidenziare che recentemente si è anche affermato che «la notificazione dell’atto impositivo tende allo scopo (immediato) di provocare il decorso del termine di impugnazione dell’atto, funzionale al conseguimento dello scopo (mediato) di provocare, in mancanza di tempestività dell’impugnazione, la definitività dello stesso … lo scopo della notifica è quello di stabilire, con effetto di certezza legale, il dies a quo del termine per l’impugnazione» (cfr., Cassazione, ordinanza n. 10209/2018).
In definitiva, preso atto del positivo orientamento della giurisprudenza di legittimità, onde evitare inutili declaratorie di inammissibilità, quando possibile è opportuno procedere sempre al deposito dell’atto impugnato unitamente al ricorso, in modo che il giudice sia in grado di verificare la tempestività dell’impugnazione.